Paranoia da clima

Umberto Minopoli

Come reagiamo ai cambiamenti climatici è una questione di cultura. Un libro dello storico Wolfgang Behringer contro gli allarmismi esagerati e l’idolatria delle temperature

"Non lasciamo l’interpretazione dei mutamenti climatici nelle mani di chi non sa nulla della storia della civiltà”. Così si apre Storia culturale del clima, un saggio affascinante di Wolfgang Behringer, storico tedesco, direttore del Centro per gli studi storici europei. E’ un libro che cambia la disputa sul clima. Non parteggia tra catastrofisti e negazionisti. Non confuta il warming. Sposta i termini della controversia. E corregge luoghi comuni e dogmi superficiali che inficiano le conclusioni sul riscaldamento globale. Il libro rivendica, per cominciare, un concetto di storia comparata nelle scienze sociali e in quelle naturali. La storiografia tradizionale, sotto l’influenza di vecchi schemi idealistici e materialistici, ha omesso il clima (che pure dispone da secoli di archivi documentali, storici e naturali) dalle determinanti della storia della civiltà. Le scienze naturali, d’altro canto, e lo studio scientifico del clima omettono la cultura, l’antropologia, la storia dei costumi e del pensiero dallo studio del clima e delle sue tendenze. Con effetti distorsivi enormi. Perché, invece, clima e cultura?

 

La storia del clima, suggerisce Behringer, non è puramente naturalistica. E’, anzitutto, almeno nei 7 milioni di anni dalla separazione di una nuova specie consapevole dalla linea evolutiva delle scimmie antropomorfe, storia dell’adattamento umano ai cambiamenti del clima. Che non è adattamento passivo. Rispetto alla lunghissima evoluzione naturale del pianeta e del suo clima in 4,5 miliardi di anni, gli ultimi 200 mila anni (quelli dell’avvento di homo sapiens) sono di interazione tra il la natura, clima terrestre e le reazioni umane: la natura (segnata dal clima) smette di essere corpo estraneo per diventare paesaggio naturale. Cioè: con l’impronta della civiltà. Che, reagendo al clima, influisce su di esso, si adatta, trasforma l’ambiente e lo domestica. Senza che si arrivi, ovviamente, alle tesi del “clima creato dall’uomo” che è una “sciocchezza grossolana”. Piuttosto, con l’avvento della civilizzazione, occorre parlare di interazione tra clima e cultura. Altro errore: parlare di cambio climatico anziché di cambiamenti climatici. C’è una tendenza a interpretare il clima come una costante, con cicli lunghi e regolati di glaciazione e riscaldamento. La variabilità del clima sarebbe limitata a queste lunghissime alternanze periodiche. Una sostanziale staticità. E invece no. Il clima cambia costantemente, per cicli molto più brevi, all’interno dei singoli grandi cicli. Specie nelle fasi dette interglaciali: le fasi (più brevi) di clima caldo che si interpongono tra i cicli glaciali (più lunghi e più frequenti) del clima terrestre. Il clima terrestre è il prodotto di una sorta di fitness metabolico tra la Terra e quattro variabili fisiche note: quantità di irraggiamento solare, movimento ed eccentricità dell’orbita planetaria, oscillazione dell’asse terrestre, composizione chimica dell’atmosfera. L’equilibrio mutevole, il feedback tra queste variabili (con l’aggiunta della tettonica a placche e del vulcanismo) spiega la variabilità estrema del clima. E’ una mistificazione, perciò, rappresentare la storia del clima come una lunghissima storia di cicli, sempre uguali, in cui sarebbe intervenuta, solo oggi (gli ultimi cento anni) una novità, un cambio, imprevisto e inatteso: un warming inalterabile e determinato da fattori antropogenici e non naturali. Behringer contesta questa idea di unicum climatico e di irreversibilità (“il clima terrestre è cambiato più volte e cambierà ancora”) e invita a essere cauti sulle cosiddette cause antropogeniche (CO2): non c’è necessariamente bisogno di fattori esogeni, oltre quelli naturali, per spiegare, almeno in esclusiva, effetti serra e riscaldamento. E, piuttosto che indulgere a profetismi sul futuro del clima, sarebbe utile considerare la peculiarità umana di adattamento ai cambi del clima. Che è la regola della storia fisica del pianeta. E che dovrebbe indurre, invita lo storico tedesco, a prudenza sulle previsioni future, allarmismi esagerati, premonizioni di dinamiche irreversibili e, soprattutto, l’idolatria delle temperature. Oggi domina l’angoscia del riscaldamento. La storia culturale congiurerebbe al contrario. Non solo la storia del pianeta ha sperimentato climi molto più freddi e molto più caldi dell’attuale ma, soprattutto, è nei periodi glaciali che le condizioni della vita sono a rischio di estinzione. E, al contrario, è nei periodi caldi (interglaciali), invece, che la capacità di adattamento, il tuning del rapporto tra uomo e clima, la reazione della società alle sfide dell’ambiente è più fine. Ed efficace. E’ nelle fasi interglaciali e, soprattutto, di ottimi climatici (periodi di riscaldamento) che le capacità di adattamento umano al clima si affinano e migliora la qualità di vita della specie. Di qui il paradosso: la brevità dei cicli interglaciali, nella storia del clima, dovrebbe far pensare alla fragilità del warming attuale piuttosto che alla sua unicità e irreversibilità. La storia del clima congiurerebbe, a rigore, verso la preoccupazione di una nuova fase di glaciazione. E, invece, prevale l’angoscia contraria. La conoscenza degli effetti freddo-caldo appare, completamente, stravolta e rovesciata nella percezione dei moderni.

 

Il testo di Behringer, in un affascinante e documentato affresco degli ultimi undici secoli, quelli della civilizzazione, corregge e inverte questa distorta percezione. L’epoca geologica della civiltà, dodicimila anni, è detta Olocene (da oloskainos, “la più recente”). E’ questa finestra temporale (in fondo ristretta) della storia del clima terrestre che rende quest’ultimo intellegibile solo se interpretato in termini culturali: guerre, migrazioni, carestie, malattie e, perfino, psicologia, arte e letteratura diventano mosse del motore del clima. L’Olocene, un’epoca interglaciale, si suddivide, nel saggio di Behringer, in tre distinte epoche climatiche: i primi secoli (prevalentemente caldi); una “piccola era glaciale” (fino quasi alla fine del XVII secolo); il secolo dell’industrializzazione (dal 1850) in cui le temperature tornano a salire. Ovviamente le linee di divisione non sono nette. E ognuna delle tre fasi è caratterizzata da oscillazioni ampie del clima, da ottimi (caldo) e pessimi (freddo) delle temperature. L’Olocene, comunque, è aperto dal riscaldamento. Homo sapiens, ha chiuso un lungo conflitto genetico, 900 mila anni, durante i quali la sua linea evolutiva, quella di Eva mitocondriale (noi), è sopravvissuto alla lunghissima glaciazione. Con il riscaldamento globale dell’Olocene (avviato da un aumento delle temperature di ben 7 gradi) esplode la produttività della specie: nasce e si globalizza la civiltà, la natura si umanizza, nascono l’agricoltura, il linguaggio, la domesticazione animale, la produzione artificiale del cibo, la stratificazione sociale, l’arte, la città. Il caldo è il “clima propizio alla civiltà”. Nei periodi di ottimi climatici (massimi di temperature calde) dei primi secoli dell’Olocene si sviluppano le grandi civiltà. Fu un ottimo climatico quello dell’affermarsi della civiltà romana o del massimo fulgore della potenza cinese o della nascita dei grandi imperi in Europa, Medio oriente e Asia fino al 400 d.C. I pessimi climatici dell’Alto Medioevo annunciano i disastri del freddo: fame, carestie, scarsità, spiegano l’insicurezza estrema del periodo (la popolazione mondiale scese allora al suo minimo storico). Al freddo dell’Alto Medioevo si alterna l’interglaciale del basso Medioevo: nel XII secolo le temperature del globo si riscaldano fino a 4 gradi in più. E’ il secolo osceno per i sostenitori del warming antropico: “Senza intervento umano faceva più caldo che in piena età industriale”. Ma è il secolo della ripresa della popolazione mondiale, della colonizzazione delle terre prima ghiacciate del nord Europa, delle nuove civiltà sortite dal freddo del settentrione. I sei secoli tra il XIII e il XIX sono, invece, definiti “piccola èra glaciale”, segnata dalla ripresa dei ghiacci In Europa e in America settentrionale, dall’aridità crescente su scala mondiale, dall’abbassamento globale delle temperature, dalla mutevolezza delle precipitazioni con effetti dirompenti sull’agricoltura, l’ambiente, le condizioni di vita delle persone. Fu negli anni della “piccola èra glaciale” che le catastrofi ambientali tornano, nell’immaginario dell’epoca, ad assomigliare alle “piaghe bibliche”. E’ un pugno di secoli (quelli della “piccola èra glaciale ) aperti dalla grande carestia (1315-1322) e dalla Morte Nera (1346-1352) in cui il peggioramento del clima, con “i lunghi inverni e le estati piovose” e gli effetti connessi di miseria, pestilenze, fame, decimazioni e un “tasso disastroso di mortalità”, tornano ad avere il carattere di “piaghe bibliche”. Qualcuno ha visto nella Guerra dei trent’anni (1618-1648) in cui morirono i due terzi della popolazione tedesca, il picco di un’epoca segnata dalla violenza, dalla guerra, dalle epidemie come reazione alla catastrofe dei lunghi inverni dell’era glaciale. E cambia la psiche dei contemporanei. Disperazione e suicidi si impennano. Il trionfo della morte (Madrid, Prado) di Pieter Brueghel è la metafora dell’epoca. Un vescovo anglicano scrive un libro, Anatomy of Melancholy, in cui anticipa i sintomi di una patologia scoperta solo di recente, il Seasonal Affective Disorder (SAD) o Winter Blues: una disarmonia depressiva, legata alla cupezza dell’inverno e all’assenza di luce solare, che causa malessere, immunodeficienza e reazioni afflittive. La gente si ammala di più: per fame e per malattie. La “piccola èra glaciale” trasforma la civiltà in un “pianeta della malinconia”, scrive Behringer, dove scelte politiche, guerre, arte e letteratura dell’epoca sembrano influenzate da questa sorte di disturbo collettivo. L’angoscia domina, perfino, la dottrina economica. Gli Essay on the principles of Population (1798) di Robert Malthus, il monumento del sottoconsumismo che ispirerà la letteratura crollista sul primo capitalismo, rispecchia il pessimismo e il tormento dell’epoca: l’ossessione della “popolazione che cresce più del cibo disponibile” e che si adatta riducendosi, grazie a malattie e guerre. Gli effetti culturali della “piccola èra glaciale” sono, nell’affresco di Behringer, devastanti: è, in questa epoca di paura, di catastrofe ambientale e sociale, che nasce il motivo della colpa antropogenica, dei comportamenti umani come causa di apocalisse, della trasgressione della natura come errore che merita la “collera di Dio”. Il risarcimento delle colpe antropogeniche verso la natura che si ribella, dà corpo ai furori penitenziali, all’assillo dell’identificazione dei responsabili: la guerra alla stregoneria, l’invenzione dell’ebreo cospiratore e il progrom contro la razza innaturale sono il prodotto delle turbe dell’epoca.

 

Nasce (quante analogie con condotte di oggi) una vera e propria economia del peccato che ispira mode, e pratiche risarcitorie, tese a ripristinare un “equilibrio con la natura”. Occorrerà la rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo per liberare il mondo dalla magia, dalla paura della natura violata, dalla visione delle avversità ambientali come collera di Dio e “punizione” per le colpe antropogeniche. La paura del clima, comunque, memoria inconscia delle catastrofi della “piccola èra glaciale” si conserva, nella nostra civiltà, come un codice ed è forse iscritto nel genoma. L’angoscia del clima torna alla fine del secolo dell’industrializzazione. Ancora una volta: è un secolo di riscaldamento globale (le temperature sono attestate in aumento a partire dal 1880) a cui si accompagna, nonostante due guerre mondiali, un indubitabile miglioramento di tutti i fattori di qualità della aspettativa di vita (riduzione di carestie, epidemie e malattie, balzo della tecnologia come modalità efficace di adattamento ecc). Fino ad anni recenti la paura degli scienziati era, curiosamente, quella di perdere i vantaggi del riscaldamento. La inversione nel trend di crescita delle temperature (dopo il 1940) ingenerò la convinzione che stessimo andando verso un global cooling, un ritorno delle glaciazioni. Negli anni 60, ricorda Behringer, “i climatologi erano ossessionati dall’imminenza di una nuova glaciazione”. E anche allora prese corpo, ovviamente, un dibattito acceso sulla natura antropogenica del cooling e fioccò la disputa sulle contromisure da adottare. E’ solo nel 1977 che si afferma tra gli scienziati la convinzione che le temperature stessero di nuovo cambiando: in aumento. Da allora il cambio climatico è diventato il primo punto dell’agenda internazionale. Ma, denuncia Behringer, con la stessa paranoia dell’apocalisse e con le medesime afflizioni della “piccola èra glaciale”: l’ossessione dei peccati antropogenici, la favola dell’“equilibrio climatico” alterato dall’uomo, la sciocchezza grossolana che è la “natura da proteggere” e non il benessere dell’uomo, l’economia del peccato delle politiche anti crescita. E, soprattutto, la tesi antiscientifica del cambio irreversibile del clima. “Il clima cambia, è sempre cambiato. Come reagiamo ai cambiamenti climatici è una questione di cultura”, conclude Behringer. Che chiosa razionalmente: “Non c’è che una cosa da fare, stare calmi. Se farà più caldo, ci prepareremo”.

Di più su questi argomenti: