Niall Ferguson

La discarica accademica

Giulio Meotti

“Le discipline umanistiche in America sono in guerra con la storia occidentale”. Parla lo storico Niall Ferguson

Al Reed College, una università celebre per le sue discipline umanistiche a Portland, nell’Oregon, si è svolta una scena surreale. Una protesta studentesca contro il corso Humanities 110. Un grande classico delle università americane, in cui agli studenti si fornisce una infarinatura sulla nascita e la formazione della civiltà occidentale. Gli studenti hanno organizzato un sit-in per protestare contro il corso fino a che il professor Libby Drumm, titolare di Humanities 110, ha ceduto dicendo che il nuovo curriculum avrebbe adottato una “struttura a quattro moduli” per includere anche “altri pensatori”, oltre a quelli di Atene e Roma. Fino a oggi, il programma includeva letture di Platone, Aristotele e Cicerone, tra gli altri. Un gruppo di studenti chiamati Reedies Against Racism ha protestato per più di un anno, sostenendo che fosse “eurocentrico” e “caucasico”. Lo scorso autunno, gli attivisti anti-razzisti avevano anche interrotto la prima lezione di Humanities 110, circondando la cattedra e interrompendo i professori, che alla fine si sono alzati e se ne sono andati. “Il canone occidentale è antiquato ed è disonorevole continuare a omettere le persone di colore dal curriculum”, avevano detto i manifestanti.

 

In tante università americane gli studenti sono impegnati a eliminare i corsi di storia occidentale. E’ una rivoluzione

Poco prima, altri studenti avevano organizzato un sit-in di tre settimane per far cacciare Jodi Kelly, preside del College Matteo Ricci dell’Università di Seattle, anche questo celebre per le sue lauree in materie umanistiche. La preside, prima è stata messa in congedo, poi si è dimessa. Gli studenti volevano una revisione del curriculum con maggiore attenzione “all’evoluzione dei sistemi di oppressione come il razzismo, il capitalismo, il colonialismo”. “Il nostro valore numero uno è ascoltare prima gli studenti”, aveva detto l’ufficio di presidenza dell’università al Seattle Times. “Il programma di Humanities così com’è oggi ignora e cancella l’umanità dei suoi studenti e dei popoli di tutto il mondo” recitava la petizione studentesca. “Siamo diversi, con molte esperienze di vita diverse, modellate anche dalla colonizzazione, dall’imperialismo americano e occidentale, dalla politica neoliberista e dall’oppressione sotto sistemi razzisti, sessisti, classisti, eteronormativi e omofobi, transfobici, queer-fobici, nazionalisti, xenofobi , che perpetuano le conquiste, il genocidio dei popoli indigeni e le pervasive ineguaglianze sistemiche”. Niente meno. Così, via la preside e l’eredità del gesuita Matteo Ricci, un orgoglio della civiltà occidentale, che ha dato anche il nome a quel college.

 

Anche gli studenti della Loyola University di Chicago hanno da poco ottenuto la possibilità di saltare i tradizionali corsi di “civiltà occidentale” e iscriversi invece a “corsi di diversità” dopo che gli studenti hanno protestato contro il corso “eurocentrico” tenuto da sempre all’università dei gesuiti. Il corso è stato sostituito da uno di “pluralismo americano” che fornisce “un’analisi delle origini, lo sviluppo e la struttura degli Stati Uniti come una società pluralistica e multirazziale dal 1609 a oggi”.

 

Sta succedendo ovunque in America. Ancora nel 1970, dieci dei cinquanta college principali avevano un corso obbligatorio di “civiltà occidentale”, mentre 31 di loro offrivano il corso agli studenti se avessero voluto sceglierlo. Oggi, secondo un rapporto dal titolo “The Vanishing West” della National Association of Teachers, nessuna università americana offre quasi più simili corsi.

Gli studenti laureandi in inglese presso l’Università della California dovevano fino a oggi seguire un corso su Chaucer, due su Shakespeare e uno su Milton, i capisaldi della letteratura anglosassone. A seguito di una rivolta della facoltà, durante la quale è stato annunciato che Shakespeare faceva parte dell’“Impero”, anche la Ucla ha cancellato questi singoli autori. E li ha sostituiti con corsi su “Gender, Race, Ethnicity, Disability and Sexuality Studies”. In altre parole, la più grande università californiana ora è ufficialmente indifferente al fatto che uno studente non sappia nulla di Chaucer, Milton o Shakespeare, ma attenta a che venga edotto su “gender, razza e sessualità”.

 

“Ho vissuto in molte di queste enclave: Manhattan, Cambridge, Stanford. Sono completamente diverse dal resto degli Stati Uniti”

Narcisismo egemonico, ossessione per il vittimismo e determinazione incessante a ridurre la straordinaria complessità del passato alle categorie superficiali dell’identità e della politica di classe. Ecco la ricetta esplosiva oggi delle humanities, denominatore sotto cui le università americane avevano congiunto materie come letteratura, storia, “liberal arts” e filosofia. In questo modo si intendeva sottrarle alle rigide barriere disciplinari fedeli a un’ispirazione pragmatica. L’idea di Harvard, dove nacquero le humanities, è che il Puritanesimo avesse creato un modello di cultura estraneo al razionalismo europeo nel suo tratto rigido, monolitico e affine alla Scolastica medioevale. L’idea era anche che le università d’élite come Yale e altri piccoli college privati, come Lewis e Clark, non dovessero preparare gli studenti a una specifica vocazione, ma al pensiero critico e alla conoscenza storica, i grandi prerequisiti per la crescita personale e la partecipazione a una democrazia libera, indipendentemente dalle scelte professionali. Quel modello è morto. Travolto dall’egemonia liberal, prima che dai tagli di bilancio delle università.

 

Nella maggior parte delle materie umanistiche e dei dipartimenti di scienze sociali, specialmente quelli al centro di un’educazione liberal come la storia, l’inglese e le scienze politiche, la percentuale di professori di sinistra si avvicina ormai al cento per cento. I “dissidenti” conservatori, come Harvey Mansfield, Robert George e Donald Kagan, sono ormai quasi estinti come i fossili. Ma le humanities sono vittime di questa egemonia culturale. A mano a mano che una parte diventa numericamente più forte, la disciplina si indebolisce e le tentazioni totalitarie aumentano. Così ora vediamo l’esclusione quasi completa di un lato da parte dell’altro. Rimasti senza avversari intellettuali, questi bellissimi campus hanno perso la capacità di trazione e di risonanza, rimanendo soltanto gli insulti e la censura. Sono diventati una bolla liberal. Gli avversari sono tutti “fascisti”, “razzisti” o “suprematisti bianchi”. Vincono l’estremismo e la demagogia. Questa violenza verbale e ideologica è il punto di arrivo di un decadimento intellettuale, la fase in cui il pensiero accademico e persino l’istruzione superiore hanno cessato di esistere. E’ diventato così quasi impossibile insegnare i drammi di Euripide, la poesia di Dante e la storia della Guerra civile senza trasformarli in soggetti monotoni di oppressione. Il risultato era prevedibile: gli studenti, a corto di denaro, hanno iniziato a evitare queste lezioni. E le humanities sono state sostituite dalla valanga di studi terapeutici, studi sulla risoluzione della pace e dei conflitti, studi postcoloniali, studi sull’ambiente, studi sui chicani, studi sulle donne, studi sui neri, studi asiatici, studi Lgbt. Calipso e Circe? Donne emarginate, maghe su isole incantate. Penelope? Vittima delle monotonia domestica. Odisseo? Caricatura del privilegio patriarcale. Telemaco? Bianco, ricco e maschio.

 

“Mi preoccupa moltissimo come i ‘guerrieri della giustizia sociale’ cerchino di limitare la libertà di parola”

Ne abbiamo parlato con uno degli ultimi dissidenti, Niall Ferguson, lo storico ed economista di origine scozzese passato un anno fa da Harvard a Stanford. “Charles Murray nel suo libro ‘Coming Apart’ descrive una immaginaria enclave delle élite, Belmont, completamente tagliata fuori rispetto alla Middle America”, racconta al Foglio Ferguson, che in Italia ha appena pubblicato per Mondadori il libro “La piazza e la torre. Le reti, le gerarchie e la lotta per il potere. Una storia globale”.

“Ho vissuto in molti di questi posti: Manhattan, Cambridge nel Massachusetts, Stanford in California. Quello che hanno in comune queste enclave accademiche – quello che mangiano, bevono, leggono e guardano – differisce completamente dal resto degli Stati Uniti”.

 

Ferguson fa notare che questa campagna all’interno delle humanities è guidata dai figli degli anni Sessanta. “Negli anni Sessanta ci fu una biforcazione: i manifestanti contro la guerra (che erano contrari alla difesa del Vietnam del Sud da parte degli Stati Uniti) si allinearono a un numero di altri gruppi, a importanti femministe e organizzazioni di ‘potere nero’, nonché a socialisti e anarchici. Dall’altra parte c’era il governo e i suoi sostenitori. La vera linea di divisione allora era generazionale, con molte persone della classe lavoratrice che sostenevano il governo, e la maggior parte dei manifestanti che invece venivano dalla classe media. Oggi, il paesaggio è abbastanza diverso. C’è una guerra culturale sfaccettata (la maggior parte ovviamente su Internet) e le lotte all’interno dei diversi campus sono spesso feroci come quelle tra sinistra e destra. Una caratteristica sorprendente delle odierne convulsioni è che sono in realtà molto meno violente di quelle della fine degli anni Sessanta e Settanta. Ciò è in parte dovuto al fatto che gran parte della guerra avviene oggi su piattaforme di rete come Twitter, YouTube e Facebook, piuttosto che in luoghi pubblici. Infine, si noti che molte delle generazioni di protesta degli anni Sessanta ora occupano le presidenze dei college e le consorterie o gli alti uffici burocratici e politici. Queste persone sono piuttosto impotenti di fronte alle piccole proteste, quindi è molto facile per gruppi piccoli ma determinati di agitatori devastare le università. Nel frattempo, la stragrande maggioranza delle persone è in realtà abbastanza soddisfatta dell’inesauribile offerta di intrattenimento che può consumare tramite i propri smartphone onnipresenti e sempre attivi. Il fatto che ora viviamo in un’economia di sorveglianza sta attirando più attenzione in questi giorni. Ma per me questa è la caratteristica più sorprendente della cultura del nostro tempo”.

 

“E’ la generazione degli anni Sessanta che controlla oggi le consorterie, ed è impotente di fronte alle nuove proteste”

Cos’è, follia? “Non sono sicuro che la follia sia la diagnosi giusta per la cultura occidentale nel suo complesso”, ci dice Ferguson. “C’è invece una sorta di follia che si può trovare in queste università, che assume la forma di un’ossessiva affermazione dei diritti delle minoranze delle donne (‘intersezionalità’) e della denigrazione dei maschi bianchi (‘controlla il tuo privilegio’). Sono abbastanza d’accordo sul fatto che le donne e le minoranze razziali siano state oggetto di discriminazione in passato, ma nelle università oggi ce n’è ben poca traccia. La misura in cui i ‘guerrieri della giustizia sociale’ nei campus cercano di far avanzare la loro agenda cercando di limitare la libertà di parola mi preoccupa invece moltissimo. Incapace di impegnarsi in un dibattito razionale su tutta una serie di questioni (ad esempio, ci sono stati benefici all’imperialismo europeo?), molti di sinistra si sono ritirati in una modalità discorsiva che semplicemente respinge qualsiasi argomento non gradiscano sulla base del sesso o della razza del loro avversario. Per le università limitare qualsiasi cosa considerata come ‘discorso d’incitamento’ da parte di qualcuno è sicuramente un sintomo di follia. Fortunatamente, un numero crescente di persone (compresi molti ex studenti universitari) sta perdendo la pazienza con questo genere di cose. Quando gli accademici si lamentano sdegnosamente del ‘populismo’, spesso intendono le obiezioni di buon senso della gente comune alle folli idee degli accademici. Un buon esempio di un’idea in questa categoria è che la migrazione illimitata sarebbe una buona idea nello stesso modo in cui il libero scambio è una buona idea. Molti professori lo credono. Tendono a non vivere nelle comunità colpite da importanti aumenti dell’immigrazione”.

 

Questo isolamento ha ripercussioni profonde sulla nostra cultura. “L’idea stessa della ‘civiltà occidentale’ è vista come una contraddizione in termini”, conclude Niall Ferguson parlando col Foglio. “Armati di un sistema valoriale anacronistico, vedono il passato come una odiosa discarica di schiavitù e oppressione. L’ho scritto nel mio libro ‘Civilization’ che il suicidio è ciò che di più la civiltà occidentale dovrebbe temere di più. E vedo oggi un desiderio strisciante di morte all’opera nei dipartimenti di studi umanistici”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.