Un'illustrazione dei "Promessi sposi" di Alessandro Manzoni

Renzi-don Rodrigo, D'Alema-don Abbondio. E' un referendum manzoniano

Antonio Gurrado
Rileggere “I promessi sposi” per il 4 dicembre. Si può postulare una proiezione ipnotica dell’ex presidente del Consiglio in cui alla figura della monaca di Monza si sovrapponga quella di Maria Elena Boschi, la cui storia è segnata da un padre ingombrante e da una risposta sventurata, che il Manzoni omette per pudicizia ma che può facilmente essere interpretata come un Sì.

Nell’infuriare della campagna referendaria, Massimo D’Alema azzarda un parallelo letterario. Renzi, dice, è come Don Rodrigo; mentre Luca Lotti è uno dei bravi, plausibilmente il Griso. Identificarlo col Nibbio, capo degli sgherri dell’Innominato, implicherebbe infatti che il mandante per cui Lotti agisce nella metafora si collochi a un livello di prestigio più elevato del diretto superiore di Lotti nella realtà. Questa succosa implicazione incita a ricercare più in dettaglio quale possa essere la corrispondenza, nell’immaginario manzoniano di D’Alema, fra personaggi dei “Promessi sposi” e attivisti del 4 dicembre. Si può dunque postulare una proiezione ipnotica dell’ex presidente del Consiglio (parafrasando Diderot, un “rêve de D’Alème”) in cui alla figura della monaca di Monza, tanto per cominciare, si sovrapponga quella di Maria Elena Boschi, la cui storia è segnata da un padre ingombrante e da una risposta sventurata, che il Manzoni omette per pudicizia ma che può facilmente essere interpretata come un Sì.

 


Maria Elena Boschi (foto LaPresse) e un'illustrazione della monaca di Monza (immagine di Wikipedia)


 

Come sempre accade nei sogni, alcune coincidenze sono banali in modo sconfortante e altre, invece, più controverse. Ad esempio, gli arzigogoli di uno Zagrebelsky sarebbero fin troppo facili a riscontrarsi nell’interpretazione creativa delle gride spagnolesche dell’Azzecca-garbugli. Tuttavia questi è dalla parte di Don Rodrigo mentre Zagrebelsky, con un rovesciamento tipicamente freudiano, presidia il versante opposto. E quel vegliardo che rivolta la trama dando inizio alla fine del romanzo – Napolitano, certo – è l’Innominato, che a un tratto si converte dal campo solito a quello imprevisto? O è forse il cardinal Federigo, la cui fermezza di principio fa da stella polare nel precipitare degli eventi? D’Alema stesso, in quanto sognatore, dovrebbe a rigor di logica attribuirsi il ruolo di protagonista, ossia Renzo, cui un prepotente cerca di sottrarre l’amata legittima, ossia la Costituzione. Ma i sogni non sono mai ciò che sembrano e, nella propria metafora, D’Alema s’è tradito spostando l’attenzione su Lotti, sul Griso, sullo sbarramento che ossessiona don Abbondio.

 


 

Giorgio Napolitano (foto LaPresse) e un'illustrazione dell'Innominato (immagine di Wikipedia)


 

Un’interpretazione più profonda, censurata dal sogno di D’Alema ma rivelata dalla sua stessa descrizione onirica, vede quindi il sognatore nel ruolo del sacerdote, la cui pavidità viene rimbrottata dall’autorevole e coraggioso cardinale (eccolo, Napolitano!): in tal caso la traslazione manzoniana avrebbe un inconfessato scopo autopunitivo, ponendo nell’immaginazione D’Alema lì dove non ha forza di essere nella realtà, contrito e umiliato di fronte alla superiore canizie di un compagno Presidente. I sogni son desideri che tentano di sfuggire al rigido controllo di una censura inconscia, la quale sbiadisce le identità problematiche fino a renderle inconoscibili; infatti, dalla scarna frasetta su Renzi e Lotti, è arduo capire chi siano gli sposi promessi. Anche qui agisce la rimozione. Se si accetta l’idea di un D’Alema don Abbondio, si può concludere che in Renzi e soprattutto in Lotti lui veda l’ostacolo alla propria ambizione a unire in matrimonio, che so, Brunetta e Di Battista. O Fini e Rodotà. Ingroia e Gasparri.
Quest’analisi psicoletteraria di una metafora di D’Alema non sarebbe completa senza uno sguardo alla critica.

 


Massimo D'Alema (foto LaPresse) e un'illustrazione di Don Abbondio (immagine di Wikipedia)


 

Nel 1977 infatti (mentre D’Alema era segretario della Fgci) Franco Fido descriveva il sistema dei personaggi del romanzo come un complesso reticolo di sopruso e misericordia, che lega le vittime agli oppressori in termini biunivoci; il Manzoni stesso non esita a dileggiare Renzo, quando questi vuol farsi portavoce di una giustizia draconiana e confinare Don Rodrigo dalla parte del torto. Una teoria di Renato Giovannoli legava invece i personaggi in triangoli tali che eroe e avversario fossero interscambiabilmente congiunti sia da un traditore sia da un aiutante. Ad esempio: per Renzo Fra’ Cristoforo è aiutante e Gertrude traditore, per Don Rodrigo viceversa Gertrude è aiutante e Fra’ Cristoforo traditore. Questa specularità è funzionale all’evoluzione dei personaggi principali; fa sì che abbiano modelli cui rifarsi per diventare, alla fine della trama, diversi da ciò che erano al principio. Così, buoni o cattivi che siano, gli esempi li trasformano. La teoria risale al 1989, proprio mentre alla Bolognina D’Alema assisteva allo stravolgimento del proprio partito, ed è una coincidenza cosmica di sapore troppo junghiano per non sembrare il cuore profondo della sua metafora: così distante dalle sue intenzioni da riuscire a rivelarle.