La resistenza in Piazza San Marco

L'indipendentismo veneto fatto sulla pelle del Risorgimento è una truffa

Guido Pescosolido
L'ultimo libro di Beggiato è stato pesantemente criticato sull’Arena per questioni di merito e di metodo storiografico e per l’uso strumentale della vicenda a fini politici. Non si dica che il popolo veneto passando nel 1866 all’Italia fu truffato né tanto meno che il Risorgimento è stato un imbroglio a danno di una parte qualsiasi degli italiani.

L’uscita del volume di Ettore Beggiato (“1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia”, Editrice Veneta) ha riacceso la vecchia polemica sui modi in cui fu realizzata l’Unità d’Italia, basata su brogli elettorali orchestrati da casa Savoia mentre le popolazioni, in questo caso quella veneta, sarebbero state contrarie all’annessione. L’autore peraltro non nasconde la speranza che Venezia e il Veneto possano decidere con un referendum di riacquistare la propria indipendenza.

 

Il libro è stato pesantemente criticato sull’Arena per questioni di merito e di metodo storiografico e per l’uso strumentale della vicenda a fini politici. Carlo Lottieri lo ha difeso sul Giornale. Ma sullo stesso Giornale Dino Cofrancesco è intervenuto sottolineando che, al di là della discutibilità dei risultati, il dato storico più importante dei plebisciti indetti nel corso dell’unificazione fu il cambiamento delle fonti di legittimazione del potere che essi implicavano. E ha pienamente ragione. Sottoporre a plebiscito la decisione di annessione equivalse comunque a riconoscere la sovranità popolare come fattore, sia pure non esclusivo, di legittimazione della sovranità di principi e stati che, sino allora, era avvenuta esclusivamente “per grazia di Dio” e/o per volontà delle grandi potenze, come nel caso della creazione del Regno del Lombardo-Veneto nel 1814-’15, che aveva posto la parola fine alla storia della Serenissima.

 

Nello specifico veneto, Beggiato ha ragione: una percentuale di Sì del 99,9 per cento dei votanti, non è credibile di essere rappresentativa degli orientamenti della popolazione veneta. Da ciò tuttavia non si può dedurre meccanicamente che la maggioranza dei veneti fosse contraria all’annessione, o, peggio, che tutto il Risorgimento sia stato un piccolo gioco truffaldino organizzato dall’alto e senza concorso di popolo. Dire questo significa, specie nel caso del Veneto, dimenticare che esso, assieme alla Lombardia, fu la culla del Risorgimento, prima e ben più di casa Savoia.

 

Significa dimenticare la crescente insofferenza che dopo il 1815 le aristocrazie e le borghesie lombarde e venete ebbero contro il regime politico e le relazioni economiche e sociali imposte da Vienna alle due regioni italiane. Il carico fiscale rovesciato su di esse le fece sentire subito fortemente sfruttate a favore degli altri territori dell’Impero. Carlo Cattaneo sottolineava nel 1849 che il Lombardo-Veneto, con un ottavo della popolazione, forniva un terzo delle entrate fiscali dell’Impero. Illustri studiosi di storia economica veneta hanno accertato, spulciando per anni archivi pubblici e privati e rapporti delle camere di commercio venete, che dal 1818 in poi Vienna attuò una politica doganale che mise le industrie cotoniere e laniere lombarde e venete alla mercé della concorrenza dei panni della Boemia e della Moravia, peraltro smaccatamente favoriti anche in materia di forniture militari.

 

La sollevazione di Milano e Venezia del 1848-’49, oltre che dalla richiesta di indipendenza e libertà politica, nacque anche da queste cose e fu pagata col sangue, non con i voti. Gli esuli del Lombardo-Veneto dopo il 1848-’49 furono la spina dorsale del movimento nazionale italiano. Il primo presidente della Società nazionale voluta da Cavour fu il veneto Daniele Manin.

 

Tralasciamo i Mille, ma il corpo dei garibaldini cacciatori delle Alpi, formato da decine di migliaia di volontari che combatterono nel 1859-’60 e che nel 1866 furono gli unici italiani a battere gli austriaci, ebbe concorso non secondario di veneti.

 

D’altro canto non si hanno notizie di umori antiunitari e ancor meno di eclatanti proteste in Veneto negli anni successivi al 1866, come invece si ebbero nel Mezzogiorno dopo il 1861. Tutt’altro. Il ceto imprenditoriale veneto, guidato da Alessandro Rossi, e la rappresentanza parlamentare veneta, guidata da Luigi Luzzatti, assunsero un ruolo di primo piano nella vita nazionale. Luzzatti (presidente del Consiglio nel 1910-’11) fu il massimo responsabile della politica commerciale dell’Italia con l’estero dagli anni Settanta alla Prima guerra mondiale, e massimo artefice quindi del passaggio dal liberismo al protezionismo tra il 1878 e il 1887. All’ombra della tariffa del 1887 il Veneto ebbe ciò che i suoi imprenditori avevano sempre sognato (un mercato nazionale protetto dalla concorrenza estera) e fu regione di punta nel processo di industrializzazione nazionale. Sarebbe stato così nel contesto austriaco? La borghesia e il mondo imprenditoriale veneto nel 1866 pensarono di no, e negli anni precedenti avevano preferito battersi per la creazione in Italia di quello stato autenticamente liberal-costituzionale e con pari diritti etnico-territoriali che dall’Austria non avevano mai avuto.

 

I veneti oggi possono avere tutte le loro ragioni per essere insoddisfatti dei rapporti con lo stato nazionale. Ma non si dica che il popolo veneto passando nel 1866 all’Italia fu truffato né tanto meno che il Risorgimento è stato un imbroglio a danno di una parte qualsiasi degli italiani. Società civile e classe politica e dirigente italiana da 30-40 anni a questa parte hanno letteralmente divorato tutto quello che era stato costruito nei precedenti centodieci e più anni di storia. Non divoriamo anche la memoria storica del Risorgimento, perché esso resta una delle poche realizzazioni, se non l’unica, per la quale il mondo ancora non ci ride dietro e ci guarda con rispetto, se non anche con ammirazione.

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