Una foto di scena del “Nabucco” allestito alle Terme di Caracalla (foto Yasuko Kageyama)

La libertà di un popolo

Mario Leone

Sentite Riccardo Muti, il più grande interprete verdiano vivente: “Verdi, quando ha scritto il Nabucco, non pensava neppure ai moti rivoluzionari, che sono venuti dopo. Verdi ha scritto il Nabucco perché era innamorato della Bibbia". Così è nata l’opera del Va’, pensiero, da sabato in scena alle Terme di Caracalla.

Dal 9 luglio sino al 9 agosto, nell’ambito della stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma alla Terme di Caracalla, va in scena “Nabucco”, opera di Giuseppe Vedi su libretto di Temistocle Solera. La regia è curata da Federico Grazzini, le scene da Andrea Belli, i costumi da Valeria Bettella. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma saranno diretti da John Fiore. Tra gli interpreti principali Luca Salsi nel ruolo di Nabucco,  Antonio Corianò nel ruolo di Ismaele, Vitalij Kowaljow in quello di Zaccaria, Csilla Boross è Abigaille, Alisa Kolosova Fenena.


 

Nabucco. In lontananza le note dell’oboe che intonano, piano e con espressione, Va’ pensiero. Il risorgimento. “Viva Verdi” sui muri della Milano dell’epoca. Peccato però che Nabucco non sia un’opera risorgimentale e che Verdi non sia animato da impeti di unità nazionale (almeno in quegli anni). Imperniato sulla vicenda degli ebrei deportati e considerato comunemente il manifesto dell’aspirazione alla libertà, il Nabucco è un intreccio di potere, amore e drammi famigliari. Sentite Riccardo Muti, il più grande interprete verdiano vivente: “Verdi, quando ha scritto il Nabucco, non pensava neppure ai moti rivoluzionari, che sono venuti dopo. Verdi ha scritto il Nabucco perché era innamorato della Bibbia. Quando si è accorto che poteva sventolarvi la patria, lo ha fatto, e vi ha aggiunto altri fini”.  

 

In effetti non vi è prova alcuna che le opere verdiane, in particolare quelle comprese tra il 1842 e il 1848, abbiano fomentato i movimenti rivoluzionari. E’ persino un luogo comune che nei cori d’opera italiani dell’Ottocento trovi voce il popolo. Julian Budden, uno che Verdi l’ha studiato, sottolinea senza mezzi termini come l’esaltazione di alcune opere celi la necessità di mitizzare un momento della storia italiana. Almeno fino al 1848 Verdi mantiene un atteggiamento distaccato, controverso e quasi indolente di fronte ai sussulti di un’Italia unita. E’ proprio il Compositore in alcune sue lettere a giustificarsi goffamente per l’assenza al servizio militare dichiarando le sue limitate capacità fisiche, altre volte nascondendosi dietro le lunghe trasferte lavorative in Francia (1848).

 



 

Non è di poco conto che le prime due opere del maestro di Busseto, “Oberto, conte di San Bonifacio” (1839) e “Un giorno di regno” (1840), fossero state un fiasco. All’insuccesso e alla conseguente crisi aggravata dai lutti subìti bisognava rispondere con un successo. Ripartire non fu facile. Bartolomeo Merelli, impresario del Teatro alla Scala, gli infilò nella tasca della giacca un misterioso regalo, un libretto che Verdi, con i suoi modi non sempre gentili, scaraventò via non appena giunto a casa. E’ lui stesso a narrare: “Senza saper come i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va’, pensiero, sull’ali dorate”. Più avanti, nella lettura, si imbatte nella figura biblica del salice (Salmo 137).  Il Maestro ritrovò la vena, lui che aveva giurato di non stender più nota sul pentagramma. Riprende perché certo che quel libretto con la sua musica avrebbe incontrato il favore del pubblico. Un altro fiasco avrebbe sancito la fine della sua carriera. Ma dopo una notte insonne, l’alba del nuovo giorno consegnò alla musica un Compositore ispiratissimo e nuovamente all’opera.

 

In verità il tema e l’ambientazione non rappresentano una novità nel panorama operistico. “Nabucco” richiama piuttosto da vicino il grande affresco rossiniano del “Mosè in Egitto” (1818), anch’esso teatro dell’intreccio amoroso tra due membri di comunità avverse. Così pure Semiramide (1823), dello stesso Gioachino Rossini. Non si tratta solo dell’ambientazione assiro-babilonese ma soprattutto del virtuosismo vocale, pur con evidenti differenze: il belcantismo rossiniano si aggiorna, nell’opera verdiana, verso un’emissione e una fonazione più vigorose per sottolineare sentimenti e scolpire personaggi che si trasformeranno in vere e proprie personalità. L’espressione è sempre meno lasciata alla sola scansione melodico-vocale, bensì sottolineata da una partecipazione “a pieni polmoni” (pare che la povera Giuseppina Strepponi, Abigaille nella “prima” alla Scala, ci abbia rimesso le penne mettendo a dura prova le sue doti vocali) nonché da un’orchestra molto corposa, atta a creare una base sonora esuberante. Siamo nell’ambito delle opere del periodo della “galera”, legate alla conquista soprattutto della “tinta”, di quel colore determinante la realizzazione della drammaturgia, ma già i personaggi cominciano ad avere una fisionomia precisa, inserita in un contesto che mantiene aperte sino all’ultimo varie prospettive. 

 

Dalla trilogia in poi avremo vere e proprie individualità, rese tali dalla musica che dà loro il respiro della vita,  indipendente quasi dai loro stessi creatori. Così diventa inevitabile guardare all’abisso che divide “Nabucco” e “Traviata”. A circa dieci anni di distanza tra le due opere, assistiamo a una evoluzione psicologica e musicale dei personaggi sbalorditiva. Nel primo, il dramma di un popolo e dei destini delle genti legati a fatti e sentimenti privati; nella seconda, la rappresentazione di una coscienza individuale che deve fare i conti con la morale borghese e l’ottusità di chi condanna ciò che non conosce o non ha il coraggio di conoscere. Due lavori diversi, dunque, ma accomunati da quell’universalità che per Gabriele D’annunzio è la cifra della musica verdiana: “Diede una voce alle speranze e ai lutti. Pianse ed amò per tutti”:  una discriminante non ideologica o partigiana nel giudizio su ogni opera d’arte.

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