Sergej Dovlatov

Compagno Dovlatov. Martedì nel Foglio la prima puntata de "La valigia"

Mariarosa Mancuso
Dopo Serenata di James M. Cain, l’estate letteraria del Foglio continua con La valigia, una raccolta di racconti di Sergej Dovlatov. Ebreo russo morto in esilio a New York a 49 anni, poco dopo il crollo del regime sovietico, Dovlatov è stato un dissidente sui generis. La lettura de La valigia ci accompagnerà fino a venerdì.

Dopo Serenata di James M. Cain, l’estate letteraria del Foglio continua con La valigia, una raccolta di racconti di Sergej Dovlatov. Ebreo russo morto in esilio a New York a 49 anni, poco dopo il crollo del regime sovietico, Dovlatov è stato un dissidente sui generis, “non tanto sul piano contingente, per quanto riguardava la realtà politica del suo paese e la propria biografia, quanto – se così si può dire – sul piano esistenziale”, scrive Laura Salmon che ha curato e tradotto l’edizione italiana che vi proponiamo, pubblicata da Sellerio. Per i suoi racconti sono stati evocati i nomi di Cechov e Carver. La lettura de La valigia ci accompagnerà fino a venerdì.

 


 

Le autobiografie novecentesche hanno conosciuto la stessa sorte del romanzo. Bisognava aggiustarle anche se non erano rotte, nessuno più osava cominciare alla maniera solita: infanzia, vocazione, prime esperienze, tutto in bell’ordine cronologico. Tra gli esperimenti, troviamo titoli come “Autobiografia di Alice Toklas” (a firma Gertrude Stein) o “Autobiografia di mia madre” (a firma Jamaica Kincaid). Negli anni Trenta, il viaggiatore e viveur Norman Douglas raccontò la propria vita estraendo – dal contenitore dove li aveva buttati – manciate di biglietti da visita. Sergej Dovlatov, a metà degli anni 80, esamina i panni contenuti in una valigia. L’aveva riempita, non troppo giudiziosamente, prima di lasciare l’Unione sovietica. Tre erano i colli consentiti dall’ufficio per l’espatrio, ma i manoscritti non passavano la dogana e i libri neppure. Riuscì a riempirne una soltanto – bel record anche per le miserie dell’Urss, a 36 anni e dopo aver fatto il giornalista, arrotondando come guida turistica al Parco di Pushkin. Era la stessa valigia che aveva usato da ragazzino al campeggio dei pionieri. Legata con la corda da bucato, conteneva cose tanto inutili – alla vita, non alla letteratura – che rimase chiusa nell’armadio per quattro anni.

 

“Siamo felici di averti qui”, scrisse nel 1980 Kurt Vonnegut a Dovlatov, dopo aver letto una sua storia sul New Yorker (qualche racconto era stato pubblicato in russo su rivistine per emigrati, i circoli che odiavano Nabokov perché aveva deciso di scrivere in inglese abbandonando la madrelingua). “La valigia” dà la misura della felicità, attorno a ogni oggetto si apre un mondo. Assurdo, perlopiù, perché tale era (almeno in parte) lo spirito russo già molto prima dei disastrosi piani quinquennali. Se no non avremmo avuto Gogol’, con il suo naso vagante a San Pietroburgo, il fantasma che ruba cappotti, le anime morte e Cicikov rannicchiato sotto le coperte “a mo’ di croccantino”. Tra le palline di naftalina, spuntano calzini verde pisello (certi colori diventano veramente orribili sui materiali sintetici, quelli erano di nylon). Settecento paia importate dalla Finlandia per un business che avrebbe dovuto arricchire il giovane Dovlatov, allora studente e desideroso di far colpo su una ragazza. Non funzionò. E non fu l’unico fallimento. Lo scrittore ci tiene, se li appunta sul petto come una medaglia (l’altra medaglia sarà vivere negli Stati Uniti senza un’automobile).

 

Viene in mente Gary Shteyngart, scrittore nato a San Pietroburgo nel 1972 e anche lui emigrato negli Usa con i genitori, giusto nel 1979. Scrive Dovlatov: “Un visto per Israele lo sognava ogni persona istruita. Anche se non aveva intenzione di emigrare. Così, per ogni evenienza” (in mancanza, andava bene anche New York). Fedele alla linea, Shteyngart  ha intitolato il suo memoir “Mi chiamavano piccolo fallimento”. L’autobiografia destrutturata funziona benissimo (a differenza di certi piatti usciti dalle cucine dei grandi chef). Dovlatov si dichiara apatico, ma è capace di scatti geniali: nella valigia ci sono scarpe rubate a un alto funzionario del partito (se le era levate sotto il tavolo). Fece anche l’attore, in un film non autorizzato. Vestito da Pietro il Grande, andava su tutte le furie guardando Leningrado (dallo zar costruita e battezzata San Pietroburgo): “Dov’è il miele, dov’è la vodka all’anice?”. Meglio di quando lo avevano vestito da Babbo Natale – per quindici rubli e tre giorni di vacanza – e i bambini gli avevano urlato “Lenin, Lenin”.

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