Imre Kertész

La vita come campo di sterminio comico. E' finita la commedia di Kertész

Guido Vitiello
Diceva Martin Amis, capovolgendo il motto di Theodor W. Adorno in una formula altrettanto sentenziosa e in fin dei conti altrettanto falsa, che Auschwitz non ha reso impossibile la poesia ma la risata. C’è da supporre che Imre Kertész, si sarebbe turato il naso anche davanti alla variazione di Amis.

Diceva Martin Amis, capovolgendo il motto di Theodor W. Adorno in una formula altrettanto sentenziosa e in fin dei conti altrettanto falsa, che Auschwitz non ha reso impossibile la poesia ma la risata. C’è da supporre che Imre Kertész, che considerava la frase di Adorno su poesia e barbarie “una fialetta puzzolente morale” (così nell’autobiografia in forma di dialogo “Dossier K.”), si sarebbe turato il naso anche davanti alla variazione di Amis. Il problema infatti non è accostare la comicità in quanto tale ad Auschwitz. Tutto sta a capire chi ride, quando ride e soprattutto come ride, perché non tutte le risate sono uguali.
“I campi sono di ispirazione ubuesca. Buchenwald vive sotto il segno di un debordante umorismo, di una buffoneria tragica” aveva scritto nel 1945 l’ex deportato politico David Rousset, autore caro a Kertész. L’universo concentrazionario avrà pure marcato d’indegnità la risata consolatoria, bonaria, dolciastra; ma ha dato una forza inimmaginabile a quella comicità stralunata e metafisica che da Kafka discende al teatro dell’assurdo. E’ una nota che è bene far risuonare, perché c’è da giurare che le commemorazioni di Kertész la lasceranno in sordina. In una pagina del suo romanzo più importante, “Essere senza destino”, il ragazzino Gyurka è all’inizio delle sue peripezie di deportato e quasi gli vien voglia di ridere – “per lo stupore, l’imbarazzo e per l’impressione di trovarmi improvvisamente in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che dovevo recitare”. Non per nulla Kertész amava moltissimo una scena di “La vita è bella”, quella in cui Benigni finge di tradurre dal tedesco gli ordini impartiti da una SS e li trasforma nel regolamento di un gioco a premi, svelandone il puntiglioso delirio.

 

Ma anche qui c’è un paradosso, esposto in un romanzo di vent’anni dopo, “Liquidazione”: “L’uomo completamente ridotto, altrimenti detto sopravvissuto, non è tragico, ma comico, perché non ha destino. D’altro canto vive con una coscienza tragica della sorte”. Questa continua sovrapposizione di comico e tragico ha molti precedenti nella letteratura concentrazionaria dell’Europa orientale – il polacco Tadeusz Borowski, l’ucraino Piotr Rawicz, entrambi morti suicidi – e a ben vedere anche nel cinema, se pensiamo che la prima grande commedia surreale sul tema è un film cecoslovacco di metà anni Sessanta, “Il negozio al corso” di Kadár e Klos.

 

Anche Kertész era ossessionato dal pensiero del suicidio, e il suo nume tutelare era Jean Améry. Ma forse erano autori come Rawicz e soprattutto Borowski i suoi spiriti più affini: la vita come immenso campo di sterminio dove suicidarsi corrisponde a fregare i guardiani; l’orrore gnosticheggiante per la paternità e la generazione in un mondo retto dal Male; una fiducia anch’essa assurda nella letteratura, che consente di dissociarsi dalla propria vita trattandola come materia da romanzo.

 

Kertész invidiava ad Améry il coraggio di aver dato forma alla propria vita, insomma il coraggio del suicidio. Ora che è morto possiamo salutarlo con la battuta di un personaggio di “Liquidazione”, l’editore Keserü, che lui stesso non sa se riferire a un dramma teatrale, alla vita o alla realtà: “Finita la commedia”.

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