Le vite di Melissa

La madre surrogata che non vuole abortire espone le contraddizioni dell’idolatrata idea di uguaglianza

New York. Quando a novembre Melissa Cook ha raccontato la sua vicenda di madre surrogata che non voleva abortire uno dei tre figli che portava in grembo, come da richiesta del padre-committente, la cosa ha fatto un certo rumore. Associazioni si sono scatenate, avvocati hanno discettato, femministe hanno tentennato. Almeno un’altra madre surrogata nella stessa situazione, Brittneyrose Torres, si è fatta avanti raccontando che i genitori-committenti le hanno chiesto di sbarazzarsi di uno dei tre bambini che aveva nella pancia per “ragioni mediche” legate ai rischi di un parto plurigemellare. Torres ha parlato con i medici, che le hanno confermato che i tre bambini stavano benissimo, e la coppia che le ha affittato l’utero per avere un figlio ha accettato la decisione della ragazza. La disputa di Cook, invece, è proseguita. Anche l’innominato uomo della Georgia che in questo affare ci ha messo sperma e denaro, dice il suo avvocato, è molto preoccupato per la salute dei tre bambini, e vorrebbe farne fuori uno finché c’è tempo per massimizzare le possibilità di averne due in salute.

 

La madre surrogata dice invece che è più preoccupato di altri aspetti, innanzitutto la situazione finanziaria, ma al di là delle ipotesi sulle intenzioni e in questo scambio in cui la vita ha fatto saltare un po’ tutti i calcoli, si è sviluppata una disputa legale che gli avvocati guardano come a un precedente importante. Non solo si tratta delle questioni sostanziali che la maternità surrogata pone: il potere di mercificare il corpo, di fare della vita l’oggetto di una compravendita, benché consensuale, di quella riduzione dell’essere umano a mezzo che avrebbe fatto inorridire anche Kant, che non era il prefetto per la congregazione della Dottrina della fede ma la lettura serale di riferimento degli intellettuali engagé; si tratta della posizione della legge di fronte a chi, come Cook, dice: “Sono pro life e non abortisco”. Il committente le ha spiegato allora di aver considerato l’ipotesi di tenere due figli e di dare il terzo, quello di troppo, in adozione, ma gli è subito sovvenuto che sarebbe stato “crudele” separare i gemelli. Per evitare la crudeltà meglio ucciderne uno.

 

Con queste premesse  Cook, che è alla 23esima settimana di gravidanza, ha sporto denuncia, spiegando all’alta corte della California che i termini della legge sulla maternità surrogata violano l’eguale protezione di fronte alla legge garantita dalla Costituzione. L’emendamento che impone l’uguale protezione è il quattordicesimo, lo stesso che è stato usato dalla Corte suprema per argomentare in favore del matrimonio gay: ci si può sposare con una persona dello stesso sesso perché tutti sono uguali di fronte alla legge, ma la signora Cook, che porta in grembo tre figli, potrebbe essere costretta ad abortire in nome delle “clausole abortive” scritte nel contratto che ha firmato quando ha deciso di fare figli per conto terzi.

 

 

I danni per la nascita

 

Ora, tutti gli avvocati coinvolti nel caso dicono che l’ipotesi di costringerla ad abortire è fuori discussione, e pare anche che alla fine il committente abbia deciso di prendere tutti e tre i bambini, ma la denuncia ha ancora un senso, perché Cook chiede al tribunale che l’uomo firmi una dichiarazione in cui s’impegna a non denunciarla per essersi rifiutata di avere un aborto. La donna che ha voluto proteggere la vita teme, insomma, di essere citata per danni per non averla “selettivamente ridotta”, secondo quanto indicato dalle clausole di un contratto. Il suo è un timore tragicamente  ragionevole.

 

Judith Daar, capo dell’American Society for Reproductive Medicine Ethics Committee, ha detto che “non è chiaro” se Cook possa essere effettivamente citata per danni, e la questione è fitta di conseguenze. Al fondo si tratta di capire se la legge – raramente discussa, ché nella maggior parte dei casi non si presentano conflitti fra le parti – regge alla prova della Costituzione, anzi dell’interpretazione restrittiva ed egalitaria che i giudici della Corte suprema hanno dato nel caso del matrimonio gay.

 

Harold Cassidy, avvocato che ha rappresentato una madre surrogata in un famoso caso analogo negli anni Ottanta, dice che i contratti stipulati e le leggi che li legittimano “non resisterebbero a uno scrutinio costituzionale”.

 

“L’idea che un uomo possa chiedere a una madre di interrompere una gravidanza, e che poi la ritenga responsabile dei danni se lei si rifiuta di farlo è crudele nei confronti della madre. L’idea che quando una madre si offre di adottare il figlio che l’uomo voleva che lei uccidesse, ma lui insiste che il figlio venga cresciuto da uno sconosciuto invece che dalla madre che lo ha amato e gli ha salvato la vita, è crudele nei confronti del figlio”, ha detto Cassidy. E dire che l’uomo della Georgia è convinto che la più crudele fra tutte le opzioni possibili è quella di far nascere i tre bambini e poi separarli.

 

Il fatto è che fino al giorno in cui il committente non le ha chiesto di “ridurre” il numero di bambini nel suo ventre, Cook non s’era accorta delle contraddizioni intrinseche, dei dilemmi né delle implicazioni del suo caso intorno all’idolatrato concetto di uguaglianza. Finché non si è trovata nella strana posizione di essere minacciata dalla legge per voler far nascere i bambini che ha in seno non aveva pensato che un servizio reso nello spirito di esaudire i desideri di chi non può avere figli ha in realtà un lato oscuro. “Non vedo più la maternità surrogata sotto la stessa luce favorevole di prima”, ha detto Cook al Washington Post.

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