L'arte di non saper far tutto. L'esempio di Michel Audiard

Mariarosa Mancuso
Faceva il dialoghista – anche lo sceneggiatore e il romanziere – Michel Audiard, padre del regista Jacques Audiard: uno che oltre al cognome ha ereditato parecchie qualità. Basta ricordare “Tutti i battiti del mio cuore” e “Il profeta”, più interessanti di “Dheepan – Una nuova vita”, film che comunque gli ha fatto vincere la Palma d’oro a Cannes

“Dialoghi aggiunti di William Shakespeare”: la battuta – rubata a un romanzo di Angela Carter intitolato “Figlie sagge” – ridicolizza le sceneggiature che passano attraverso troppe mani. Alla fine non si sa esattamente cosa va attribuito a chi: nella confusione, o nella contrattazione, senza dimenticare il dispetto, finisce che l’autore del soggetto viene scambiato con chi dà l’ultimo ritocco a un dialogo legnoso. La professione di dialoghista esiste, infatti, e non soltanto nell’industria cinematografica americana.

 

Faceva il dialoghista – anche lo sceneggiatore e il romanziere – Michel Audiard, padre del regista Jacques Audiard: uno che oltre al cognome ha ereditato parecchie qualità. Basta ricordare “Tutti i battiti del mio cuore” e “Il profeta”, più interessanti di “Dheepan – Una nuova vita”, film che comunque gli ha fatto vincere la Palma d’oro a Cannes (nelle sale dal 22 ottobre). Morto trent’anni fa, Michel Audiard viene ricordato nell’ultimo numero del mensile Studio Ciné Live. A uso dei giovani cinefili, si presume.

 

Gli spettatori più adulti, soprattutto i francesi, non lo hanno mai dimenticato. Molti sono i siti internet che raccolgono citazioni dai suoi film. Molti sono i fan che invece di studiare le simmetrie di Wes Anderson classificano i temi cari a Audiard –  tasse, imbecilli, donne, case chiuse e nostalgia. Battute che ormai si leggono come reperti di un cinema che fu, e stanno bene soltanto in bocca a Jean Gabin. Nessuno può più dire, senza suscitare infinita tenerezza: “Un gentiluomo è uno capace di descrivere una bella donna solo a parole”. Oppure: “Servono molte sciocchine per far dimenticare una donna intelligente”.

 

L’incontro con Jean Gabin fu una svolta nella ricca e lunghissima carriera di Michel Audiard. Che già aveva capito di non essere tanto bravo a costruire trame, il talento stava altrove. Per la cronaca, glielo fece notare nel 1953 il regista Henri Verneuil (pseudonimo di Achod Malakian, nato in Turchia nel 1920 e sbarcato a Marsiglia con i genitori quando aveva 4 anni). Lavoravano insieme a “Il nemico pubblico n. 1” e invece di accapigliarsi, e magari stare litigati per sempre – come accade per molto meno nel cinema italiano, che infatti non brilla per spartizione del lavoro – continuarono felicemente a collaborare.

 

“Ascoltando i dialoghi di Jacques Prévert ho capito che la lingua del cinema non era la lingua del teatro e neanche la lingua della letteratura”, racconta Michel Audiard in una vecchia intervista. Si intende, qui, il Prévert che scriveva per Marcel Carné “Il porto delle nebbie” e “Alba tragica” (sulle poesie qualche riserva si può avanzare, ma appunto: non tutti sono bravi a fare tutto). Frase da incidere sui muri delle scuole di cinema, assieme alla lista dei testi consigliati: Jules Verne, Marcel Proust, Balzac e Rimbaud.

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