Prendere sul serio il programma quinquennale di Slow Food e farlo a pezzetti
Dalle colonne di Repubblica, Carlin Petrini, fondatore di Slow Food (e insieme a Prodi, Veltroni e altri 43 fortunati, membro del fu Comitato promotore nazionale per il Partito Democratico), reitera l’invito a traguardare la dimensione spettacolare dell’Expo, per concentrare l’attenzione sui suoi profili “più politici”. E – in un’epoca che, oltre all’epica della terra, avrebbe scordato anche la sacralità dei documenti ufficiali – muove proprio da quella Carta di Milano che, della manifestazione meneghina, intende condensare l’eredità. Vasto programma.
Prima di tutto, per le lacune del documento: un discreto punto di partenza che, tuttavia, trascura elementi fondamentali per la sostenibilità del sistema alimentare globale: l’acqua come bene comune; l’inappropriabilità delle sementi; la critica – naturalmente “serena” – al profitto e al libero mercato che evidentemente nessun ruolo hanno avuto, secondo Petrini, non diciamo nella sconfitta della fame nel mondo, ma certo nella sua imponente riduzione. Alla Carta, però, manca qualcosa di più: un’assunzione di responsabilità delle istituzioni per giungere a una sua traduzione tangibile, “almeno a livello nazionale”. Se la Carta è un ideale programma di governo, ciò che serve è un governante illuminato che si faccia carico di darle applicazione. L’agricoltura famigliare al potere.
Vediamo allora cosa succede, quando un’amministrazione si conforma alla poetica Slow Food. Nei giorni scorsi, il governatore della Toscana Enrico Rossi ha incontrato il commissario europeo alle Politiche agricole, Phil Hogan, per caldeggiare l’attribuzione della denominazione d’origine protetta al pane toscano – prodotto con grano tenero, lievitato con pasta acida e, naturalmente, privo di sale. Fin qui, nulla di sorprendente: una meritoria tradizione che domanda tutela, colpo da manuale del cibo come una volta. Ciò che colpisce è il candore con cui il governatore Rossi ha condiviso l’ispirazione, tutta economica, della richiesta.
Il prezzo di mercato del grano tenero si aggira intorno ai 160 euro a tonnellata; ma il suo costo di produzione può raggiungere i 180 euro a tonnellata, rendendone la coltivazione antieconomica. Per la verità, questi dati sembrano contraddetti dalla constatazione che la produzione di grano tenero in Toscana è raddoppiata tra il 2010 e il 2014; ma prendiamoli per buoni. Che fare per colmare il divario? Elementare: riconoscere una denominazione d’origine protetta al pane toscano per garantire ai coltivatori di frumento una rendita. Rossi ha fatto i conti: il prezzo della materia prima potrebbe salire fino a 250 euro a tonnellata, gli agricoltori ne produrrebbero 75.000 tonnellate, la filiera genererebbe 3.000 ulteriori posti di lavoro.
[**Video_box_2**]Suggestione politicamente redditizia: i produttori votano in Toscana, i consumatori chissà. Poco male se strumenti come i marchi d’origine, principalmente pensati come garanzie a presidio dei secondi, vengono usati (e propagandati!) come misure protezionistiche a favore dei primi. Dietro al ritornello dei prodotti tipici, si nasconde il solito spregio del mercato, con cui comunque occorrerà confrontarsi: Rossi scommette sul fatto che basta un bollino per evitare che l’aumento dei prezzi deprima la domanda; e dà per scontato che, una volta sconfitto il sedicente pane toscano, la panificazione secondo disciplinare possa assorbire la maggiore offerta di materia prima – presupposti la cui tenuta è tutt’altro che scontata. Che il nanismo produttivo, l’aumento dei prezzi, il tradizionalismo ostentato – in breve: un approccio elitista al cibo – siano le chiavi per un’alimentazione sostenibile è la contraddizione ineludibile dell’ideologia petriniana. E di una parte importante del Pd, pare. Ma diventa complicato nutrire il pianeta, con i piani quinquennali del pane sciapo.
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