L'anti Masterchef
“Non chiedetemi di spiegarvi una ricetta. Chiedetevi piuttosto come fanno le pietanze a raggiungere questo livello di armonia”. Yoshihiro Murata è una leggenda vivente. Tutti parlano di lui come di un uomo estremamente alla mano, libero dalle rigidità giapponesi. Sarà che subisce l’influenza di Kyoto, la sua città d’origine, l’antica capitale del Giappone che ha sempre saputo coniugare la storia e il formalismo alla modernità. E infatti Murata sorride, stringe mani. E ride, quando gli chiedo se arrivato a questo punto della sua carriera gli andrebbe di fare un talent, chessò, un MasterChef alla giapponese. E qui la risposta va ricercata nella tradizione giapponese, quella dell’arte che si tramanda attraverso l’insegnamento dei più anziani: “I nostri maestri ci dicevano sempre che gli chef non devono essere in competizione tra di loro. L’unica vera competizione è tra chi cucina e chi mangia. Tra me e il cliente”, dice. Lo guardo un po’ storto, perché abituata alla ristorazione trasteverina, a un certo tipo di rapporto piuttosto disinvolto tra oste e cliente, posso solo immaginarli i risultati di un cuoco che si mette in competizione con il cliente. Ma Murata parla di qualcosa di più profondo: “Le persone che vengono nel mio ristorante cercano tutte qualcosa di diverso: c’è chi viene perché ha fame, c’è chi vuole fare un’esperienza particolare, chi vuole fare bella figura con una donna. A ognuno di loro preparo qualcosa che si adatti alle sue esigenze. Se pensi che la parola cucina viene dal latino ed etimologicamente ha a che fare con le cose che vanno cotte, è l’atto in sé del preparare un pasto. Nella lingua giapponese la parola ryori – cucina, appunto – significa misurarsi con la persona che sta mangiando”.
Murata è tra i più stellati chef dalla celebre guida Michelin. Ne ha sette in tutto, tre stelle sono assegnate al suo ristorante di Kyoto, il Kikunoi, fondato nel 1912 dai suoi antenati [a questo link il sito internet del ristorante]. Oggi è un guru della cucina kaiseki e per una cena al suo ristorante possono volerci anche cinquecento euro (quindi se andate per far colpo, mettete in conto un migliaio di euro). “Quando ero bambino non volevo fare questo mestiere”, dice Murata, “i miei genitori erano ristoratori e volevano che mi preparassi a continuare la tradizione. Allora sono scappato in Francia”. E lì Murata, quarantatré anni fa, ha scoperto la cucina europea. “A quell’epoca nessuno conosceva la cucina giapponese, ho girato tutta l’Europa e assaggiato ogni piatto possibile. Con quella esperienza sono tornato in Giappone, sapendo che la cucina del mio paese poteva essere ancora più grande”. Ma aveva bisogno di qualcuno che sapesse diffonderla nel modo giusto.
Incontriamo Murata a Milano per la settimana dedicata alla prefettura di Kyoto al padiglione giapponese di Expo [qui il sito ufficiale]. Ha portato con sé i suoi dodici migliori allievi, quelli della sua Japanese Culinary Academy. I suoi samurai. All’inaugurazione hanno cucinato tutti per il governatore della regione, Keiji Yamada, per il sindaco di Kyoto, Daisaku Kadokawa (il sindaco veste sempre in kimono, in ogni occasione, e anche lui non si fa mai sfuggire il pretesto per una battuta, dice chi lo conosce bene), e per parecchi ospiti giapponesi e italiani. Dopo l’esibizione di una geiko e una maiko (così si chiamano le donne a cui volgarmente ci rivolgiamo come geishe, e che fanno parte della tradizione più intima di Kyoto), a un certo punto Yoshihiro Murata si avvicina al tavolo dei sushi, e quando prende in mano del riso dalla sala si alza un “oooh” di sorpresa. Non succede mai che prepari direttamente lui il sushi, davanti a tutta questa gente poi, mi sussurrano all’orecchio. E in effetti Murata non è un cuoco qualunque: è un maestro. Maestro di cucina kaiseki, per essere precisi, un modo di vivere la cucina giapponese che è difficile da spiegare a parole. Se vogliamo regolarci con dei parametri fin troppo occidentali, dovremmo dire che la kaiseki è la cucina giapponese più costosa. Perché unisce raffinatezza ed equilibrio, studio degli elementi e ricercatezza degli ingredienti, soprattutto quelli stagionali. Armonia è la parola chiave: provate ad assaggiare le verdure con gelatina di kuzu e kombu dashi aromatico preparate da Murata. Proprio come nell’ikebana, l’arte della composizione dei fiori, ogni elemento ha un suo significato e una sua precisa disposizione. “La cucina kaiseki”, che nasce nel XVI secolo e si è perfezionata verso la metà del XVIII, “si distingue non solo per i suoi sapori e la sua forma ma anche perché esprime, con messaggi nascosti fra i piatti, quella filosofia della bellezza nota come wabi. Il kaiseki è stato perfezionato per esprimere meglio il senso estetico del wabi e la sua novità assoluta è stata l’incorporare nei piatti un intento comunicativo: messaggi che trasmettono il senso della stagione o un sentimento d’augurio”. Lo si legge in un libro appena pubblicato dall’Accademia del maestro Murata, “Introduzione alla cucina giapponese. Natura, storia e cultura”, un’opera enciclopedica edita principalmente per cuochi professionisti e per la prima volta tradotta in italiano. Un viaggio anche fotografico, una guida completa per capire la differenza fondamentale tra la cucina giapponese e il nostro approccio al cibo, quasi sempre da talent show ai fornelli. Nel volume si attraversano tutti i percorsi della tradizione culinaria giapponese, una tradizione che inizia nella storia, naturalmente, ma coinvolge pure l’anima più spirituale del Giappone. La cultura del sakè [leggi anche Il Divin Sakè], le feste agricole stagionali, i piatti giusti da preparare per ogni festività, la venerazione per il riso: “La parola gohan indica sia il riso cotto al vapore sia il pasto in generale”, si legge nel volume, “questo perché il riso bianco è il simbolo del pasto per i giapponesi”, fondamento della cucina e pressoché onnipresente. Anche i bastoncini con i quali mangiamo nei ristoranti hanno una tradizione, e un significato. Per esempio quelli di uso quotidiano sono appuntiti solo da un lato, ma quelli per gli eventi speciali come il Capodanno sono appuntiti da entrambi i lati per permettere di mangiare carne o pesce da una parte e le verdure dall’altra.
“Siamo felici perché la nostra cucina, il washoku, lo scorso anno è stata inserita nella lista Unesco come patrimonio intangibile dell’umanità”, dice al Foglio Keiji Yamada, che è stato eletto per la prima volta governatore della prefettura di Kyoto nel 2002, ed è anche presidente dell’Associazione nazionale dei governatori. Yamada è una personalità politica importante, in Giappone: lo scorso anno è stato rieletto governatore con un margine molto ampio nei confronti dell’altro candidato Nozomu Ozaki, che era sostenuto soltanto dal Partito comunista. Yamada aveva l’appoggio delle zone rurali della prefettura di Kyoto, e da sempre si batte per una rivitalizzazione dell’economia locale. Per questo ha lanciato, nel 2015, l’anno della “strategia della carne”, nel tentativo di promuovere la carne di manzo della sua regione. “La cucina giapponese è salubre, molto vicina alla natura. E’ per questo che somiglia anche, per certi aspetti, a quella italiana”, dice il governatore. Eppure il tema di Expo2015 è “Nutrire il pianeta”, e andare a mangiare al ristorante giapponese non è esattamente un’attività che possono permettersi tutti. “Certo, ma come nella cucina italiana puoi andare a un ristorante costoso di alta cucina oppure puoi prepararti degli spaghetti a casa, così anche in quella giapponese esistono due tipi di cucina”. Al padiglione nipponico di Expo “puoi trovare ramen, udon e soba, piatti molto semplici che si fanno a casa. E’ importante far capire al mondo che la nostra cucina non è soltanto kaiseki e sushi”. Ma qualcosa ancora tiene insieme i due tipi di tradizione: “Ci sono degli elementi comuni, quelli che più caratterizzano la cucina giapponese, di qualunque tipo sia. E’ l’armonia dei piatti, e per esempio il brodo con cui si cucina, ricco di ottime sostanze per il corpo”. Ecco, la materia prima è un problema serio per il Giappone, perché l’esportazione, soprattutto in Europa, è ancora vincolata a parametri difficili da superare: “Le regole della Comunità europea sono molto severe”, dice Yamada, “anche se i nostri prodotti sono controllati. Stiamo lavorando per fornire anche ai prodotti di Kyoto degli indicatori di qualità come i marchi Dop o Igp”. Ma a questo punto Yamada ci tiene a chiarire: “Si può fare la cucina giapponese con i prodotti italiani. E chiunque può cucinare giapponese. L’importante è non fermarsi alla mera ricetta, ma conoscere in profondità la cultura e la disciplina che c’è dietro”.
Se provate a cercare “cucina giapponese” su Google, i suggerimenti che vi dà il motore di ricerca sono quattro: ricette, calorie, di casa, sushi. E hanno tutti a che fare con un fraintendimento culturale. Non esiste qualcuno che possa insegnarvi a fare il sushi in casa, non esiste una ricetta come per la pasta, e la cucina giapponese non è soltanto sushi. A spiegarcelo è Stefania Viti, curatrice di un prezioso libretto “L’Arte del Sushi”, (Gribaudo, 160 pp., 12.90 euro) in libreria dalla scorsa settimana. Una collezione di saggi di vari personaggi che hanno contribuito alla diffusione della cultura giapponese in Italia: c’è Michiyo Yamada, giornalista da trent’anni in Italia che racconta la geografia delle innumerevoli forme che il sushi può assumere in tutto il territorio giapponese; c’è Pio D’Emilia, storico corrispondente dal Giappone, che fa un ritratto del sushi come rito, “un compendio di antropologia gastroculturale”. “L’economia del sushi negli ultimi anni sta registrando un paradosso”, scrive Stefano Carrer, corrispondente da Tokyo del Sole 24 Ore, nel suo intervento, “guardando al lato della domanda, in Italia come altrove sono in molti a mangiare più sushi dei giapponesi, specie dopo che negli ultimi anni si sono moltiplicati i ristoranti easygoing o il packaging da supermercato. E’ vero che i giapponesi restano tra i maggiori consumatori al mondo di pesce (e importano un po’ troppo tonno), ma nella versione sushi sono più morigerati di quanto lo siano diventati alcuni popoli per i quali il pesce crudo abbinato al riso è estraneo o quasi alla loro tradizione alimentare”. Stefania Viti ha vissuto in Giappone per anni, e dopo essere tornata a Milano ha notato che l’approccio occidentale alla cultura culinaria giapponese era scorretto: “L’idea del libro viene proprio da questo. L’esigenza di chiarire un punto: se ci si ferma a una ricetta non si può conoscere la cultura culinaria giapponese”. E tutto nasce dal grande fraintendimento occidentale intorno al sushi, esportato in America durante la metà degli anni Sessanta: “Gli americani vedevano nel sushi un cibo anzitutto salutare – in fondo era solo pesce crudo e riso – e soprattutto comodo e semplice. Ma il fatto che sia facile da mangiare non significa che sia facile da cucinare”, spiega Viti, “ci vogliono due anni di scuola solamente per imparare a cuocere il riso, in Giappone”.
“The Zen of Fish: The Story of Sushi, from Samurai to Supermarket” di Trevor Corson (Harper, 2007) è una bibbia sulla materia. Nel libro si racconta la storia dello chef giapponese Ichiro Mashita, del ristorante Tokyo Kaikan, che fu il primo a essere aperto a Los Angeles. Non era facile trovare il tonno per fare il sushi, in California, e fu per una necessità tecnica che Machita trovò il modo di sostituire l’avocado al tonno, inventando di fatto il California roll (praticamente il tipo di sushi più mangiato nel mondo dai gaijin, gli stranieri). Da quel momento il tradizionale spuntino da strada giapponese divenne internazionalmente il simbolo di una cucina di lusso.
E quel momento c’è stato anche in Italia, quando tutti abbiamo improvvisamente iniziato a mangiare sushi. Parole come kaiten, onigiri, wasabi, sono entrate nell’uso corrente. Il sushi è divenuto sinonimo di un certo tipo di fighetteria da aperitivo. Pechino ha fiutato l’affare e alcuni ristoranti si sono reinventati: parecchi di quelli cinesi hanno cominciato a istallare i nastri trasportatori per sushi, solitamente venduto nella formula all-you-can-eat, tutto quello che puoi mangiare allo stesso prezzo. La diffusione della cucina giapponese a questo livello nasceva da un pregiudizio culturale forse ancor più provinciale: per gli italiani, qualunque asiatico avrebbe potuto fare del sushi (non importa la regione di provenienza); e la cucina giapponese coincide con il sushi. Scrive Allan Bay nella prefazione a “L’Arte del sushi” che uno dei motivi di questo successo planetario del piatto giapponese è da ricercare in quello che in economia si chiama il food cost. “E’ un termine che si usa meno di quanto si dovrebbe nella cucina anche se ne è un parametro fondamentale”. In sintesi, è “il valore degli ingredienti di un singolo piatto proposto, che viene rapportato col prezzo al quale si riesce a vendere quel piatto. Avere un food cost elevato vuol dire quindi che il moltiplicatore fra costo della materia prima e prezzo di vendita è elevato”. Il sushi è una miniera d’oro per un ristoratore occidentale: costa poco farlo (almeno in una cucina di qualità medio-bassa), e si può vendere a un prezzo alto. E visto che le regole di mercato sono quelle che sono, anche i ristoranti più famosi e di qualità, in Italia, sono stati costretti ad aumentare i prezzi per difendere un marchio. Un simbolo. Anche se si dovesse finire per spendere un centinaio di euro per mangiare quattro California rolls.
Antifascismo per definizione