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La strana Roma di Salvini, Raggi e Papa Francesco vista da un taxi

Andrea Panzironi, tassista

Come diceva Ennio Flaiano: “Coraggio, il meglio è passato”

Indifferente a ciò che gli scorre sotto, il cielo di Roma lo scorso 8 dicembre ha steso il suo più fulgido drappo azzurro striato di rosa ed arancio. Poi al tramonto, un tramonto dolce e caldo come d’estate, è sorta la silhouette nera delle cento cupole e dei dieci obelischi che hanno fatto da fondale d’opera alle comparse dei tre popoli che oggi si sono dati il cambio all’unisono, come nelle più riuscite delle rappresentazioni.

 

Per primo è andato in scena quello rugoso, bonariamente truce e maleducatamente primatista dei salvinisti della nazione. Chiamato a raccolta in mattinata nella omonima piazza, ultimo di altri popoli qui già andati in scena e poi estinti, il popolo salvinista ha giubilato, gioioso e non più iracondo, alle parole pregne di buoni sentimenti del suo apostolo. Sarà stato per la giornata serena o forse per la vicinanza del Santo Padre, prossimo alla benedizione sotto la Madonna della vicina piazza Mignanelli, don Matteo ha elargito un comizio pastorale, unificante, paradossalmente buonista. La mutazione pseudoantropologica del popolo verde è sembrata compiuta. Dall’homo rauco e scissionista di trent’anni orsono a quello rassicurante e governativo di oggi.

 

Verso l’ora di pranzo, nel tripudio bimane di uomini e donne che con una agitavano bandierina bianco blu del neoleghismo post realtà e con l’altra tenevano lo smartphone twittante di vita virtuale a dare senso compiuto allo stare contemporaneamente nelle due parti ormai inscindibili dell’Essere, esaurito il primo dei tre atti previsti, il popolo primatista è scolato via, nei rivoli settecenteschi del tridente valaderiano. E passo dopo passo, panino dopo panino, birretta dopo birretta, non eludendo lo shopping prenatalizio, la gens salvinensis si è mescolata, come in una delle più azzardate ricette della unica e rilevante neo-avanguardia rimasta in Italia, quella culinaria, con la gente romana, confluita anch’essa, ovviamente automunita, in gran massa in centro, perché “va bene tutto ma nun ce tojete er suv da sotto er culo!”.

 

E così, il secondo atto, quello del popolo francescano, è andato in scena nella suggestiva e raccolta piazza Mignanelli, dove, sotto lo sguardo dell’Immacolata, il Papa ha benedetto la virginale sindaca e i concittadini quivi accorsi, protetti dal cordone giallo fluorescente di pensionati della Protezione civile, a loro volta assistiti dai neoassunti vigili urbani (della serie quando il turn over funziona!), anch’essi con indosso fluorescenti gilet gialli, che rovesciando il senso della protesta dei cugini francesi, qui da noi rappresentano l’ordine più o meno costituito.

 

Il Papa, evitando citazioni dirette eppure appellandosi al trascendente, ha voluto invitare i cittadini romani a essere buoni e accondiscendenti, collaborativi e premurosi, nonostante una sindaca che disinvoltamente riesce a essere mannequin per una notte all’opera oppure con la stessa nonchalance manichino del capo della sua azienda-partito.

 

Il gran finale è andato in scena a inizio sera, dove lo scenario maestoso del marmo bianco dell’altare della “comunque” patria ha fatto da sfondo alla cerimonia della revanche capitolina post Spelacchio. Qui il terzo e ultimo atto ha messo in scena l’apologia del non senso, quando l’albero Ikea e sponsorizzato Netflix, incollato pezzo per pezzo nei tre giorni precedenti, ha iniziato a interloquire con la prima cittadina, mandando in visibilio il popolo grillista, qualunquista e sovranista che qui accorso ha fatto pensare al caro vecchio Flaiano che così chiosava alla vista dell’irrimediabile declino romano: “Coraggio, il meglio è passato!”.

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