Fedeli islamici in preghiera (foto LaPresse)

Qual è il legame tra il terrorismo fai da te e le moschee (abusive)

Cristina Giudici

Qualcosa non torna nella narrazione comune su terroristi, aspiranti martiri e islamisti. Ormai si tende sempre a focalizzare il loro profilo individuale e a catalogarli come lupi solitari, anche se attivi all’interno di una rete

Qualcosa non torna nella narrazione comune su terroristi, aspiranti martiri e islamisti perché ormai si tende sempre a focalizzare il loro profilo individuale e a catalogarli come lupi solitari, anche se attivi all’interno di una rete. Uno stereotipo che rassicura le nostre coscienze e ci permette di ignorare il ruolo dei centri islamici, utilizzati come luoghi di culto. Come se si volesse esorcizzare un problema mai affrontato né risolto delle moschee abusive che si moltiplicano nelle periferie urbane o nelle province. Eppure anche l’ultima generazione autodidatta di aspiranti mujaheddin, che si radicalizzano velocemente sul web, hanno sempre una moschea di riferimento. O talvolta sono persino imam, ovviamente fai-da-te.

 

Come l’ultimo islamista espulso la settimana scorsa a Lecco: Idris Idrizovic, 39 anni, è un imam kosovaro che per anni ha predicato nei centri islamici della Lombardia a Costa Masnaga, Renate, Cinisello Balsamo e Como. E secondo gli investigatori del Ros aveva relazioni anche con la piccola moschea di Zingonia, in provincia di Bergamo, dove nel 2015 è stato arrestato il pakistano Hafiz Muhammad Zulkifal a capo di un’organizzazione fondamentalista che si occupava di raccogliere fondi da destinare ad attentati in Pakistan. Un centro islamico ancora oggi monitorato dall’intelligence perché considerato un luogo di transito per islamisti.

 

Probabilmente si tende a non accendere i riflettori sulle moschee frequentate da fanatici per non colpevolizzare un’intera comunità di fedeli che invece non hanno mostrato segnali di radicalizzazione. Sebbene gli esempi di connessioni fra jihadisti e centri di culto siano numerosi e palesi. E non solo al Nord. Il marocchino Abdelilah el-Assali, per esempio. Espulso un mese fa frequentava il centro islamico di Città di Castello, in provincia di Perugia. O Hadeg Abdelmoutalib, anche lui marocchino residente a Perugia, dove era stato imam nella moschea della città da cui era stato allontanato per i suoi veementi sermoni salafiti, ma prima aveva fatto in tempo a radicalizzare due tunisini, poi entrambi espulsi. E aveva continuato a dare lezioni di sharia’h in un altro piccolo centro di culto di Corciano, sempre in provincia di Perugia. Hadeg era in contatto con Korchi El Mostafa, anche lui ex imam della moschea di Ponte Felcino arrestato e poi condannato per reati di terrorismo internazionale. E ancora: nella lunga lista degli espulsi nel 2017 si trova Brendo Bardhi, albanese che era stato radicalizzato da un imam prima di dichiarare la sua adesione al Califfato dello stato islamico. Senza dimenticare la vicenda significativa del ceceno Eli Bombataliev arrestato nel luglio scorso, membro di una rete di jihadisti dell'Isis sparsi in Italia e in Europa. Viveva fra la casa napoletana della moglie russa e la moschea di Foggia, dove alloggiava e ogni tanto faceva qualche predica. Un centro islamico, quello di Foggia, osservato da tempo con attenzione dall’intelligence per la pericolosa commistione fra malavita e musulmani radicalizzati. E che dire di Nourreddine Chouchane, jihadista tunisino ritenuto dall’intelligence statunitense una delle menti dell’attentato al Bardo del 18 marzo 2015? Frequentava il centro di Cerreto d’Esi, in provincia di Ancona, prima di essere ucciso il 19 febbraio del 2016 da un raid statunitense a Sabratha.

 

Abbiamo letto fiumi di inchiostro su tutti i terroristi che hanno usato l’Italia come terra di passaggio o retrovia logistica, ma poco o nulla sulle moschee che li hanno ospitati perché nella narrazione degli islamisti italiani o dei terroristi di passaggio manca sempre un tassello che riguarda una moschea (abusiva). Si descrivono gli islamisti come delinquenti radicalizzati in carcere, giovani sbandati o balordi finiti sui siti dell’Isis per ricevere le indicazioni su come fare la guerra all’occidente e investire gli infedeli con un furgone, meglio se nei giorni di festa. E invece, se si gratta la superficie, si trova sempre un centro di culto, un predicatore casuale, un imam. Quindi continuare a separare i sostenitori dell’islam radicale dal contesto in cui si muovono può servire a non allarmare ulteriormente l’opinione pubblica, ma non a risolvere il problema delle piccole moschee di periferia dove, a cicli alterni, arriva un predicatore in cerca di fratelli da radicalizzare. E non solo sul web, come vi hanno raccontato per consolidare la tesi più rassicurante del lupo solitario. Che fare quindi con i centri di culto che servono anche per veicolare l’odio jihadista?

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