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Tradito dal jihad

Claudio Burgio

Monsef partì per la Siria all’improvviso, dopo essersi radicalizzato online a Milano. Don Burgio si era preso cura di lui, ma non poté nulla contro quel richiamo. Un libro

Chi ti ha preso la vita, Monsef? Chi ha avuto il controllo della tua mente fino a indurti verso la morte? Come sei diventato un aspirante jihadista? Le moschee che hai frequentato a Milano erano sotto controllo da parte delle forze di sicurezza e dei servizi di informazione. Chi ti ha motivato ad arruolarti ti ha certamente contattato fuori da quei luoghi di culto. A rafforzare questa mia convinzione è un fatto che mi è stato riportato da alcuni testimoni. Nei giorni successivi agli eventi tragici di Parigi quando, il 7 gennaio 2015, i due fratelli Kouachi fecero irruzione armati nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, tu avesti un’accesa discussione con l’imam della moschea di via Padova. Eri ormai radicalizzato. Dieci giorni dopo, la tua partenza per la Siria. Se non nelle moschee, dove è avvenuta la tua radicalizzazione? Si sa che gli istituti penitenziari sono luoghi di diffusione dell’ideologia radicale, una specie di incubatore; veri e propri vivai di futuri jihadisti. Nel carcere di San Vittore, a Milano, però, rimanesti soltanto un mese. Troppo poco tempo per un vero reclutamento.

   

Nei giorni successivi agli eventi tragici di Parigi del 7 gennaio 2015 tu avesti un'accesa discussione con l'imam. Eri ormai radicalizzato

Molto probabilmente, né la moschea, né il carcere, ma la Rete ti ha adescato e ha finito per possederti. Il web è diventato giorno dopo giorno la tua umma, la tua comunità virtuale. Nel periodo trascorso nell’appartamento per l’autonomia, come testimoniato soltanto successivamente dagli altri ragazzi, passavi sempre più ore in Internet, navigando su siti e social network radicali. Ai legami sociali deboli con le persone intorno a te andavi sostituendo la comunità di Internet che ti ha offerto un senso di appartenenza più forte. Sul web è avvenuta la tua auto-radicalizzazione, guardando quei video di efferate decapitazioni rituali che facevi girare anche tra gli altri ragazzi, compreso Tarik. Ogni tanto anche a me facevi vedere foto che ritraevano i volti dei “martiri del jihad” morti in combattimento con il sorriso sulle labbra. Erano foto raccapriccianti. Mi dicevi che i loro corpi senza vita profumano e che se si muore da martire si va direttamente in paradiso. Ero troppo ingenuo per fare in tempo a capire. Non mi accorgevo che, ormai, l’opera di formazione delle coscienze non passa più dalla scuola, ma dagli schermi: televisione, Internet, social…

  

Eri ingenuo anche tu a non immaginare dove poteva arrivare il Califfato con i potenti mezzi tecnologici audio-video. Veri e propri registi del terrore ti hanno colpito con effetti speciali e tu, Monsef, non hai saputo resistere. Adesso mi spiego il tuo improvviso abbandono di condotte illecite. Era nata una nuova dipendenza, una nuova scorciatoia per non dovere soffrire l’esclusione di cui eri vittima da sempre. Era l’illusione assoluta dell’utopia digitale. Mi sono chiesto se il tuo obiettivo fosse soltanto quello di partire per il Califfato. Il racconto di un ragazzo, a un anno di distanza, mi ha raggelato. Sono venuto a conoscenza che, a Milano, cercavi armi da fuoco. Chiedevi come recuperarle. Evidentemente non hai portato a termine il tuo proposito. Forse non saremmo qui a parlarne. Un altro ragazzo con cui vivevi in appartamento mi ha confidato che una sera parlavi di me: “Il don non lo ucciderei mai… mi ha aiutato tanto in questi anni. Se, però, mi arrivasse l’ordine, dovrei farlo. E’ un prete in vista, fa pregare nel Duomo!”. Non so e non voglio sapere quanto di vero ci sia in questo recente racconto, ma con i brividi mi sei venuto in mente quando mi chiedesti di poter partecipare a una messa celebrata da me in Duomo. Ti ricordi, Monsef? Insieme con Giusy e un altro ragazzo sei rimasto tutto il tempo della celebrazione seduto nel transetto di San Giovanni Bono. Alcune foto scattate in quell’occasione ti ritraggono attentissimo, con gli occhi puntati sull’altare mentre celebro l’eucaristia. Sei composto, con le mani intrecciate quasi fossero giunte e sei seduto con atteggiamento rispettoso sulle prime panche. Quali pensieri ti affollavano la mente in quel momento? Dopo la messa, abbiamo parlato di religione, come spesso succedeva negli ultimi tempi. All’epoca, non facevi ancora discorsi estremisti. Eppure, perché eri lì? Perché proprio in Duomo, oggi uno degli obiettivi sensibili più a rischio in Italia, tra i principali bersagli di attacchi da parte di estremisti islamici?

  

Da una parte c'eri tu, con il timore di un tuo possibile ritorno in qualche atto terroristico; dall'altra parte, c'erano tutti gli altri ragazzi

Faccio davvero fatica a pensarti come un terrorista. Non riesco a mettere insieme la violenza che ispira ora i tuoi giorni con l’affetto che mi hai dimostrato in varie occasioni. Ricordo ancora quando venisti a trovarmi in ospedale. Fu un incontro bello, che mi diede tanta forza per affrontare giorni di grande preoccupazione. Sempre una foto ritrae quel momento tra noi. Non stavo per niente bene, ero ancora allettato, con forti dolori di stomaco. Ti avvicinasti al mio letto, mi mettesti la mano sulla spalla per darmi coraggio. Un gesto semplice, un cuore grande. Tornasti ancora in ospedale a trovarmi insieme con altri ragazzi della comunità. Stavo meglio, ero in piedi. Tu portavi la nostra maglietta con la scritta “Non esistono ragazzi cattivi”. Lo penso ancora oggi, anche se adesso indossi l’uniforme nera del Califfato, perché ogni persona anche quando vive momenti di buio è e rimane un Bene originario. In un’altra foto che ci hanno scattato insieme, mi metti un braccio intorno al collo. Con te, quel giorno, c’era anche Tarik con il suo indimenticabile sorriso. Il giorno dopo, mi inviasti sul cellulare un’altra foto scattata sul campo da calcio. Tu e gli altri ragazzi per darmi coraggio e per farmi guarire mi inviaste tanti cuori disegnati nell’aria con le mani. Questo è Monsef che ho conosciuto. Questo è Monsef a cui ho imparato a voler bene. Non lo dimenticherò mai (…).

  

Ricordo con emozione la nostra ultima cena. Tu e gli altri ragazzi avevate invitato me e Marco in casa e i tuoi compagni di comunità musulmani avevano preparato un’ottima cena. Tu e Tarik arrivaste in ritardo e io cominciai a intuire che qualcosa non andava. In maniera un po’ provocatoria vi domandai: “Allora, quando partite?”. L’avevo detto senza pensare, ma per osservare le vostre reazioni che puntualmente non mancarono. Vi guardaste rapidamente negli occhi con un leggero sorriso sulle labbra. Poi, il silenzio. Non una risposta. Due giorni dopo eravate “in viaggio verso Allah”.

  

Dopo un anno dalla tua partenza, il mio arcivescovo di allora, il cardinale Angelo Scola, ha chiesto di incontrarmi. Nel colloquio privato con lui, dialogando sulla vicenda tua e di Tarik, si è rivolto a me con toni paterni: “Prudentia est auriga virtutum”. L’invito alla prudenza ha suscitato in me, per i mesi successivi, una serie di interrogativi e di riflessioni. E pensare che, involontariamente, ho messo a rischio anche lui. Ricordi la volta in cui tu, Tarik e gli altri ragazzi della comunità lo serviste a tavola nel pranzo al Museo del Duomo organizzato dalla Veneranda Fabbrica del Duomo?

  

Ho riflettuto a lungo sulla parola prudenza. Che cosa intendeva dirmi il cardinal Scola? Perché, citando Orazio, mi ha ricordato che “c’è una misura nelle cose” (“est modus in rebus”)? Era un invito a non espormi troppo? Nel mio non saper leggere la realtà, era un invito protettivo a stare in equilibrio? Difficile, perché tutta la vita di un uomo si muove inevitabilmente tra possibilità e rischio. Che cos’è la prudenza? Astenersi dalle preoccupazioni e da azioni considerate pericolose?

  

Un atteggiamento rassegnato di previdenza contro l’eventualità di danni e pericoli incombenti? Poi mi sono ricordato che la prudenza è la prima delle quattro virtù cardinali. Ho riscoperto, Monsef, che la prudenza è quella virtù che dispone l’intelletto all’analisi accorta del mondo reale in cui vivo ed è quella abitudine che esorta la ragione a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene, scegliendo i mezzi adeguati per compierlo. L’avevo confusa, come fanno molti, con la timidezza e la paura. Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare.

  

La prudenza è, dunque, il retto discernimento delle azioni umane. Non è soltanto questione di buon senso. Per il cristiano, la prudenza diventa quella piccola pausa di riflessione che ci impedisce di essere precipitosi nel giudicare, nel condannare e nel prendere decisioni affrettate. Per il credente la prudenza non è conquista umana, ma è una dote di chi è docile allo Spirito Santo come Gesù e si lascia guidare attraverso gli eventi mai casuali.

   

La preoccupazione del cardinal Scola e il suo paterno consiglio hanno generato in me, dapprima, un richiamo un po’ spaventato a non prendere decisioni avventate, quasi mi si chiedesse di non avere più a che fare con ragazzi musulmani e con storie come la tua; poi, sono diventati una chiamata ulteriore al discernimento. Che cosa mi chiede Dio oggi? Come mi chiede di stare di fronte a questa situazione? Quali decisioni prendere? Vale la pena continuare con questi ragazzi? E’ quello che vuole il Signore per me e per la Chiesa?

  

Da una parte c’eri tu, Monsef, con il timore di un tuo possibile ritorno in qualche atto terroristico; dall’altra parte, c’erano tutti gli altri ragazzi. Ancora una volta mi si è posta dinanzi la parola tradere, con la sua curiosa ambivalenza semantica: consegnare, dare la vita, essere dono, oppure tradire, essere tradito, lasciarsi ingannare? Difficile scelta. Ci ho messo due lunghi anni.

  

"Allora, quando partite?". L'avevo detto senza pensare, ma per osservare le vostre reazioni. Due giorni dopo eravate in viaggio

Dopo la partenza tua e di Tarik puoi immaginare che cosa sia avvenuto? Digos, Servizi per la sicurezza nazionale, giornalisti, operatori televisivi, ricercatori universitari, studiosi del Ministero. Due anni ininterrotti di interviste, richieste e colloqui persino dall’America e dalla Francia. Sono stato sottoposto a un vero processo mediatico. Bollato come prete buonista, massacrato come ingenuo che vuole aiutare ragazzi irrimediabilmente persi, educatore fallito per via di quel “baby-jihadista cresciuto in un centro cattolico”. Tra chi ha scritto che don Claudio “ha perso un’importante battaglia per l’integrazione” e chi, fanaticamente, mi indica come l’agitatore dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale per il fatto che accolgo ragazzi migranti nelle mie comunità (…).

Più passava il tempo, più l’invito del cardinale alla prudenza mi paralizzava. Per lungo tempo non sono più riuscito a entrare nell’appartamento da dove sei partito. Per molti mesi ho fatto fatica a parlare con gli altri ragazzi che sono rimasti. Non ho mai più guardato la tua stanza, i vestiti che hai lasciato, il tuo computer.

A stravolgermi totalmente arrivavano le tue prime foto dal fronte islamico postate su Facebook. Eri l’immagine inedita di un combattente armato. Non ti riconoscevo più. Chi sei diventato, Monsef, in poco tempo? Quale follia omicida ti ha catturato? Dov’è finito il tuo sorriso? Dove si è perso il tuo sguardo limpido? Perché questa fascinazione per la morte?

Dicono che molti giovani jihadisti sacrificano la propria vita anche per salvare i genitori dalla loro empietà. Ai tuoi occhi la generazione dei padri risulta perdente, sottomessa all’Occidente, incapace di reagire alle ingiustizie. Una generazione troppo distante dal cielo.

Come un ribaltamento nel rapporto tra le generazioni: il figlio muore per far (ri)nascere i propri genitori. Ti hanno e ti sei convinto a tal punto che i tuoi genitori siano miscredenti da non aver nemmeno chiesto la loro autorizzazione per fare il jihad, come previsto dal Corano.

Non credo, tuttavia, possano bastare queste considerazioni per dare una spiegazione al mio smarrimento. Mi rimangono moltissime domande senza risposta: perché tanta violenza? Che cosa sei andato a fare nell’Isis? A combattere il regime siriano? A cercare te stesso o per una ragione collettiva? Che cosa ti ha promesso Daesh: la gloria? La fine delle ingiustizie? Il ritorno alla grandezza del passato? Oppure, ti hanno affascinato i soldi? Dicono che i guerrieri del Califfato siano ben pagati e per di più in dollari.

Non saprò mai i motivi che ti hanno spinto a partire per la guerra. Una cosa so. Il crescente smarrimento giovanile non è fenomeno soltanto arabo-musulmano. La violenza cieca e autodistruttiva può diventare il destino di molti giovani anche in Occidente. L’apatia di generazioni senza più punti di riferimento, senza più visioni e progetti, può gettare anche nei nostri giovani europei l’ombra del nichilismo e fare di loro prede perfette per ogni tipo di ideologia demagogica.

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