A Bologna, l'hub migranti di via Mattei (foto LaPresse)

Isolare chi è davvero pericoloso senza discriminare gli altri renderà le espulsioni più efficaci

Alfredo Mantovano

Dall'attentatore di Copenaghen, Rakhmat Akilov, ad Anis Amri, fino a Igor "il russo": anche i fatti recenti dimostrano che va ridotta l’area dell’irregolarità

Non esiste un rimedio unico e infallibile. I tasselli della prevenzione e del contrasto al terrorismo di matrice islamica sono tanti, e non è detto che mettendoli tutti insieme e in ordine garantiscano da attentati. Lo ha ricordato lunedì il ministro Minniti alla festa della Polizia: per il terrorismo la prevedibilità è zero; il che però conferma la necessità di intensificare il lavoro sulla prevenibilità. Una delle voci di maggiore debolezza in Europa è il meccanismo delle espulsioni; è vero che non pochi attentati sono messi in opera da soggetti che dimorano in modo regolare nel territorio dei singoli stati dell’Unione europea – e ciò fa porre la questione della radicalizzazione delle seconde e delle terze generazioni di immigrati –, ma è altrettanto vero che altri episodi vedono protagonisti individui che non dovrebbero trovarsi in Francia, o in Germania, o in Italia, e invece vi scorrazzano senza ostacoli. Rakhmat Akilov, il trentanovenne di origine uzbeka che venerdì a Stoccolma si è lanciato alla guida di un camion rubato contro la folla, era ricercato dalla polizia svedese perché era stata respinta la sua domanda di soggiorno, e ne era stata dichiarata la espulsione. Anis Amri, l’autore della strage di Berlino morto all’antivigilia di Natale nel conflitto a fuoco di Sesto San Giovanni, era stato collocato in un Cie italiano, quindi rimesso in circolazione con un decreto di espulsione non eseguito, poi condannato e incarcerato, infine tornato in libertà senza essere mai allontanato dal territorio europeo. L’elenco è lungo e non fa brillare per efficacia nessuno stato comunitario.

 

 

A scanso di equivoci. Il parametro del buon funzionamento di un sistema di espulsione non è l’attenzione rivolta solo ai sospetti di terrorismo. Quando un individuo rientra in questa categoria è già in qualche modo sotto controllo; o dovrebbe esserlo, in base alla maggiore o minore capacità dei singoli ordinamenti. In Italia il testo unico sull’immigrazione contiene una norma – l’articolo 13 comma 1 – che permette l’allontanamento effettivo dal territorio italiano “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello stato”: non si tratta però di ordinaria amministrazione; c’è bisogno di un decreto del ministro dell’Interno, previa comunicazione al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri. Il problema, dentro e fuori l’Italia, è la funzionalità ordinaria. E’ ben vero che l’applicazione alla lettera della Bossi-Fini imporrebbe di espellere ogni dodici mesi non meno di 100 mila migranti irregolari: tanti per ciascuno degli ultimi quattro anni hanno fatto ingresso e sono rimasti nel nostro territorio, mentre coloro che nel 2016 hanno avuto una espulsione effettiva con riaccompagnamento nel paese di origine sono stati 5.789, meno del 6 per cento degli arrivati illegalmente. Ma è altrettanto vero che un’area così estesa di irregolarità tollerata è il terreno ideale per reclutamenti da parte della criminalità, e talora per passaggi ad ambienti terroristici: comunque è qualcosa che rende complicati i controlli, che occulta le identità, che forma reti clandestine. Senza trascurare, come conferma la tragica vicenda del pluriomicida Igor il russo alias Ezechiele il serbo, che le preoccupazioni ci sono – e come – pur lo straniero “si limita” ad agire nell’ambito della criminalità.

 

Va ridotta l’area dell’irregolarità: cominciando con l’estromettere chi è segnalato come pericoloso durante l’osservazione in carcere o chi commette reati che, per via dei benefici riconosciuti, non conducono in un istituto di pena. Perché una espulsione sia effettiva è necessario: a) identificare in modo sicuro il soggetto e la sua nazionalità; b) accordarsi con lo stato di origine perché lo riprenda con sé; c) impedire che si dilegui finché sono in corso l’identificazione e la trattativa con lo stato in questione. Quanto ad a), servono investimenti in uomini e mezzi per potenziare e velocizzare l’esatta individuazione della persona, magari con un adeguamento normativo che dissuada dal rifiuto della propria identificazione: far derivare l’immediata espulsione o a una condotta del genere, che denota l’assenza di lealtà nei confronti dello stato che sta accogliendo, ha una sua logica e farebbe cadere il numero degli irregolari senza nome. Quanto a b), da sempre gli stati di origine resistono alla riconsegna di propri cittadini, o rifiutando la collaborazione o realizzandola al minimo; da sempre questi ostacoli sono superati con una interlocuzione diretta, che inserisca la gestione dei flussi migratori nel quadro più ampio della cooperazione: se non si negozia non si fa un passo in avanti. In quest’ottica l’avvio di “missioni” dell’attuale ministro dell’Interno negli stati di provenienza dei migranti irregolari è una strada obbligata. Quanto a c), la capienza dei Centri di trattenimento finalizzati alle espulsioni, progressivamente ridotta negli ultimi cinque anni, sta conoscendo finalmente un potenziamento. Esige la collaborazione di tutti: per una Regione e chi ci abita avere un Cie al proprio interno è garanzia di sicurezza; fa isolare chi è realmente pericoloso e contiene l’indiscriminata reazione antimigranti delle popolazioni.