Addio a Tom Hayden, il pacifista “borghese rinato”

Stefano Pistolini
Dall'utopia dei Freedom Riders contro l’apartheid all'unione con la stupenda e turbolenta Jane Fonda, fino al matrimonio con Barbara Williams e a una "seconda vita" tranquilla. Una figura che aveva il classicismo della Frontiera: l’America si è formata anche attraverso personaggi così.

Per quanto riguarda il costruirsi una reputazione, Tom Hayden l’attivista per i diritti civili, morto ieri a Los Angeles, aveva una visione modernissima. Il suo matrimonio con la stupenda e turbolenta Jane Fonda – che coniugava l’impegno coi costumi di Barbarella indossati per Roger Vadim – aveva dato vita a una “power couple” ben prima che venisse inventata quest’etichetta, divi assoluti della generazione ruggente degli anni Sessanta. Del resto Hayden era uno che poteva puntare così in alto perché, oltre a essere un gran bel tipo, era la migliore incarnazione mediatica del movimento di coinvolgimento più importante del Nuovo Continente: il pacifismo del no alla guerra, la contestazione contro le ingerenze del governo americano negli affari di lontane nazioni, l’invocazione culturale, e prima ancora emotiva e passionale, della pace a tutti costi, del rifiuto della violenza come forma di confronto e dell’utilizzo in termini nuovissimi, ma anche “originali” per l’american way of thinking, del concetto puro di “libertà”.

 

Un radicalismo intransigente e rumoroso, situazionista e alla ricerca delle strade per farsi largo in quell’immaginario americano “normale” già arroccatosi attorno ai principi di legge e ordine: all’ombra delle deità di ML King Jr e di Bob Kennedy, Hayden e compagni, presto incapsulati nella generica definizione New Left, perseguirono un atteggiamento di rottura col sistema sociopolitico americano, mettendone in discussione le fondamenta, a cominciare dall’irrisolta questione razziale.

 



 

Poco più che ventenne, Hayden entra nei Freedom Riders, che visti oggi sono una vera organizzazione di militanza utopica, partendo allo sbaraglio negli Stati del sud per mettere in discussione i luoghi comuni dell’apartheid – a cominciare da quello che prevedeva la segregazione a bordo dei mezzi di trasporto. L’atteggiamento di protesta di quella generazione divenne presto un continuo trasmigrare da una causa all’altra, da una battaglia alla successiva. L’idea stessa di pacifismo non si scollava da un idealismo lontano dal proporre soluzioni, che ribadiva un’incolmabile distanza tra i giovani figli della classe media americana invaghiti dell’amore universale, e la realtà di un mondo sfregiato dalle differenze. Tom Wolfe, pochi anni dopo, avrebbe lanciato la definizione “radical chic” per questi educati guerriglieri, cinicamente condannandone l’inefficacia. Eppure ciò personaggi come Tom Hayden seppero fare, ad esempio come membro dei Chicago Seven – con Abbie Hoffman, Jerry Rubin e altri, incriminati dal governo federale per cospirazione dopo le dimostrazioni alla Convenzione Democratica Nazionale del 1968 – o durante i viaggi postbellici in Vietnam in compagnia di Jane, per tentare una riconciliazione e girare documentari oggi considerati dei capolavori, o negli anni ’70 a fianco del governatore della California Jerry Brown, come consulente per i primi timidi tentativi di energia alternativa, raccontano una storia d’impegno perenne, combattività e anticonformismo, sebbene non immune dal gusto della celebrità che laggiù è moneta corrente.

 

La seconda parte della vita di Hayden è tranquilla: il divorzio dalla Fonda, il matrimonio con un’altra attrice, Barbara Williams, tante corse elettorali, quasi sempre perse nel segno di un estremismo poco eleggibile, l’annessione all’Olimpo dell’America ribelle, tanti libri, una militanza un po’ simbolica, esposto come trofeo allorché l’idea di pacifismo spuntò, timidamente, nella campagna di Barack Obama e poi in quella di Bernie Sanders. Proprio alla Convention democratica del luglio scorso un attacco di cuore annuncia la fine di Hayden e ora i media lo ricordano con fervore, testimone di un’americanità della quale si fatica a ristabilire i lineamenti. Negli ultimi anni il revisionismo di sinistra ha messo in discussione i vecchi leader anni ’60, considerati proni alla spettacolarizzazione, mentre l’America conservatrice non ha smesso di bollarli come fautori dell’attacco all’integrità nazionale. Hayden nella sua autobiografia si definiva un borghese rinato, e confessava d’aver vissuto con troppo romanticismo la saga vietnamita, al punto da sfiorare l’anti-americanismo. Però ribadiva il credo nella democrazia partecipativa, nella fratellanza e nell’onestà. Una figura come la sua oggi ha il classicismo della Frontiera: l’America si è formata anche attraverso figure così. La rapidità con la quale sono divenute storia ribadisce che la parabola di questa nazione non smette di correre.