Ansa
Magazine
Il mondo perduto di Rep.
La tragedia greca della dismissione degli Elkann e del nuovo editore in arrivo da Atene. La commedia umana di Eugenio Scalfari e dei suoi a cinquant’anni dalla fondazione. Una saga che varrebbe un film
Mentre incombe la tragedia greca, con l’arrivo dell’editore di Atene che rileverà Repubblica, corre l’obbligo di ricordare la comédie humaine di Scalfari e dei suoi, lanciata nel ‘76, e il suo protagonista, il Don Draper di questa Mad Men o Rep. Men che nessuno inopinatamente ha mai portato sullo schermo. E’ una saga che sarebbe interessante anche se riguardasse una fabbrica di materassi o lavapiatti o tostapani, una clamorosa startup nell’Italia degli anni Settanta, visti i numeri e il successo iniziali, ma mentre fuori c’è quel cesso di paese lì, tra gente che si spara e mette bombe e pensa male e si veste male, loro tirano su invece una startup che è un giornale, un giornale fichissimo che è anche un mondo, con un’estetica precisa, che sembrava destinato a durare per sempre.
Popolato di personaggi “larger than life” anche poco conosciuti. Ecco Rolando Montesperelli, il mitico capo della segreteria di redazione. “Renitente alla leva, aveva passato un anno all’addiaccio nelle catacombe di san Tommaso grazie all’ospitalità dei frati, ma poi finita la guerra, nel 46 si era arruolato nella Marina. Impersonava il suo ruolo come capo della protezione di Scalfari”, racconta al Foglio Franco Recanatesi, benemerito di Rep. dove ha occupato i ruoli più variegati (redattore sportivo, caposervizio Interni e Cronaca, caporedattore centrale, inviato, ecc. ecc.) e ha scritto La mattina andavamo a piazza Indipendenza (Cairo Editore), citazione ovviamente di La sera andavamo a via Veneto di Scalfari. “Nei primi anni di Rep, quindi del terrorismo, Montesperelli si era dotato di pistola, e si esercitava al poligono di Corso Francia”. “Il suo motto era ‘voi pensate a scrivere, al resto penso io’. Girava per la redazione con un telefono cordless, rarissimo a quei tempi, e appunto risolveva problemi. Un passaporto? Si faceva in giornata grazie al rapporto privilegiato con la polizia. E la polizia poteva capitare che portasse a Fiumicino a sirene spiegate un inviato che non doveva perdere il volo per Buenos Aires”. I budget erano assurdi rispetto a oggi. “Quando lanciammo l’edizione di Repubblica Napoli facemmo una festa a Ercolano che costò 32 milioni di lire. A un certo punto ci fu la crisi di Lampedusa, quando Gheddafi tirò dei missili che sfiorarono l’isola, e venne chiuso lo spazio aereo. Scalfari mi chiama e mi dice: be’, e che problema c’è: prendi un volo privato. Ne trovammo uno, costava 14 milioni di lire, glielo dissi, perplesso. E lui: ma che problema c’è? Per mio scrupolo personale coinvolsi un collega della Stampa, almeno per dividere la spesa”. Le cosiddette pezze d’appoggio, cioè le ricevute, bastavano a mano, o anche niente. Celebre il pigiama di seta di Edgardo Bartoli, inviato all’inglese, detto sir Edgard, che quando qualcuno sollevò dubbi circa un pigiama di seta messo in conto al giornale rispose: ovvio, il mio si era macchiato con un whisky (messo in conto, il whisky, a 75 sterline. Del 1976). Sembra insomma “The Wolf of Piazza Indipendenza”, dove però nessuno contesta i soldi per i contorni come il compianto Rob Reiner appena sterminato, che nel film di Scorsese controllava le note spese.
Anzi. “Montesperelli ti riempiva di soldi. Tu arrivavi lì e dicevi: mi serve un milione per questa missione, e lui: un milione, e che ci fai con un milione?”. Trasferte leggendarie: due mesi “sulle rotte dei pirati”, ai Caraibi, per una serie di reportage estivi. E poi settimane in America sulle orme dei pellerossa. “Era un mondo anche in cui giravi tantissimo, andavi nei posti, oggi non ti mandano più da nessuna parte”. Si girava anche tantissimo tra le varie testate locali, in quella galassia che era l’orgoglio della Finegil, la “cash cow”, la macchina da soldi messa su dal principe Caracciolo che insieme a Scalfari aveva lanciato l’Impresa. A un certo punto Recanatesi lo vogliono mandare prima a Padova al Mattino, anzi no, cambiano idea, vada alla Nuova Sardegna. Contrordine, a Genova al Lavoro. Quando finalmente decidono dove spedirlo, il principe Caracciolo chiede: “Ma lei quanto prende per curiosità? Ma è troppo poco!”. E gli alza lo stipendio.
C’era anche una “bulimia di firme”, racconta Recanatesi: Scalfari voleva tutti i migliori. Saccheggia Paese Sera e il Corriere in preda allo scandalo P2. Corteggia e viene corteggiato, perché Repubblica diventa il place to be. Arrivano Gianni Brera e Gianni Mura. Giorgio Bocca e Enzo Biagi. Arbasino e Eco. Fa impressione che le poche grandi firme rimaste oggi siano ancora quelle scelte dal fondatore: tra queste Corrado Augias e Natalia Aspesi. Ma anche le cifre, le spese e gli stipendi, sarebbero ottimi ancor oggi, e pure al lordo dell’inflazione. Siamo in un eterno 1976.
Il principe, poi, “era fichissimo, eravamo tutte un po’ innamorate di lui”, mi racconta Donata Scalfari, giornalista, infanta di Rep. in purezza, in quanto figlia di Eugenio, e moglie di Ettore Viola, nipote a sua volta di Sandro Viola grande inviato, intellettuale chic delle Puglie (e double face come tutti i personaggioni di Rep., detto “er mejo tacco”, per le doti di ballerino, doti che si esprimevano nei night di via Veneto insieme al Fondatore). “Caracciolo e mio padre erano simbiotici. A un certo punto, quando stavano per fondare Repubblica, se dovevano andare nello stesso posto per lavoro, presero a volare separati su due aerei diversi, così se cadeva l’aereo il giornale avrebbe retto”. Tipo famiglia reale inglese. “Noi li prendevamo un po’ in giro infatti”. Qualcuno – sono molti i Rep. o gli ex Rep. che non vogliono parlare, in questi giorni, come presi da tristezza o diffidenza o apprensione o lealtà da ufficiali dell’ex impero - sostiene che “è quando è morto Caracciolo è finita veramente Repubblica. Perché Caracciolo incarnava quell’animo aristocratico e giocoso che è stato parte integrante di quell’avventura”. Caracciolo era pure lui un personaggio: bellissimo, nato titolatissimo ma senza una lira, ovviamente cognato dell’Avvocato, che si diceva lo invidiasse, perché quello a differenza sua oltre ai titoli aveva la capacità di far soldi e imprese. C’era tutta una leggenda: il maggiordomo egiziano Kemal, la “pennica corta”, e il gozzo che usava all’Argentario già appartenuto a Italo Balbo. Come l’Avvocato gli piaceva stare coi peggio figuri, tipo il faccendiere Carboni. Oltre che principe di Castagneto poi era pure duca di Melito, e si dice che una volta chiese a un tassista di portarlo a vedere questa benedetta Melito, nell’entroterra napoletano. Non rimase molto colpito. Chissà cosa avrebbe detto qualche anno fa della hit inneggiante a “La mia bitch di Melito” di un micidiale trapper partenopeo, MVKilla, che imperversava su TikTok. Ci sarebbero andati, Caracciolo e Scalfari, ad Atreju, chiedo a Donata Scalfari. “Non so Caracciolo, mio padre no”, risponde.
Il legame con la real casa Agnelli non era poi lineare. “Tutti pensavano che essendo il ‘giornale cognato’ l’Avvocato avesse qualche influenza su Rep, ma non era assolutamente così”, dice. Si narra che a Garavicchio, la tenuta caraccioliana a Capalbio, un giorno Giorgio Bocca chiese a donna Marella: “Come mai tuo fratello e Scalfari fanno un giornale di comunisti?”. Siete solo dei poveri comunisti? Macché. Le dinamiche politiche di Rep. non erano così precise, e anzi il colossale, torrenziale dibbbattito interno, tra comunisti, socialisti “lombardiani” come Scalfari, e liberali, era parte del successo del giornale. E pure in casa grandi discussioni. Un giorno da Scalfari sulla Nomentana si presenta l’Avvocato. Le figlie: “ma come, hai invitato a casa il capitalismo borghese? Puah!”. Un altro giorno c’è Cossiga. Sdegno anche maggiore delle infante. “Figuriamoci, noi lo avversavamo ogni giorno, io ero nella Fgci e mia sorella Enrica nel movimento studentesco. Avevamo pure scritto Kossiga con la K nell’ascensore di casa, e pure con la falce e martello, mentre c’era qualcuno un po’ fascio che ci aveva disegnato una svastica”, racconta Donata. “A un certo punto ci fu la prima manifestazione delle liceali femministe. Il Pci era contrarissimo, e io che ero molto osservante, con grande fastidio di mio padre, pensai di non partecipare. Mi tenne un’ora a spiegarmi invece perché bisognava andare. Allora vado. Ma la manifestazione passa sotto il mio liceo, il Tasso, e a quel punto i compagni mi vedono e si decide la mia espulsione dalla Fgci. Mio padre: espulsione? Non sia mai: ‘La battaglia si fa dall’interno’”. Segue il racconto di come il direttore del più importante giornale d’Italia abbia brigato con la figlia quindicenne che viene sottoposta a una specie di processo popolare, che coinvolge il segretario della Fgci romana, “io dovetti difendere la mia posizione, con una mia memoria, che mio padre ovviamente mi riscrisse completamente, ed ero intimidita, mica sapevo parlare in pubblico: alla fine mi dettero ragione”.
Certo, ‘na fatica. Il dibbattito era perenne. Anche nella leggendaria “messa cantata”, la riunione di redazione che si teneva verso le nove e mezza-dieci, attorno a un tavolone lungo, dove Scalfari non si metteva a capotavola ma appollaiato di lato. “Se il tavolo discute la notizia c’è”, motto scalfariano. Spesso alla riunione c’erano delle guest star, cioè politici industriali persone importanti che telefonavano e a loro insaputa Scalfari metteva in viva voce. A questa fondamentale riunione “I capiredattori dovevano presenziare mentre gli inviati potevano, ma non erano obbligati” mi racconta una ex Rep. anonima. “Se c’eri però dovevi essere informatissimo, aver già letto tutti i giornali del mattino, altrimenti se Scalfari ti faceva una domanda a bruciapelo, e non sapevi rispondere, ti ribaltava. Ogni tanto qualcuno si sentiva male dopo la cazziata”. Trucchi del mestiere fantozziani per non soccombere: “ascoltavamo la rassegna stampa di Radio Radicale, durante la doccia, per guadagnare tempo”. Al pomeriggio alle 4 c’era un’altra riunione più ristretta. Se poi dalle riunioni c’erano notizie riservate che trapelavano su altri giornali, c’era la “caccia all’infame”, e non era infrequente, dati i vari rapporti endogamici tra giornalisti, perché Repubblica era anche una grande famiglia molto libertina. Si formarono infatti coppie di breve, lungo o lunghissimo corso: Guzzanti con Laura Laurenzi e Brunella Schisa; Mario Pirani con Barbara Spinelli; Mauro Bene con Alessandra Longo; Gigi Melega con Irene Bignardi; Gregorio Botta con Maria Stella Conte. Poi c’era il vasto mondo dei flirt: Enrico Sisti, capo dei grafici, era ritenuto grande playboy, da cui l’haiku scalfariano: “Se squilla il telefono di Sisti, non rispondete, potrebbe essere vostra moglie”. Le liaison intra aziendali, oggi punite molto severamente in ogni megaditta del globo, erano tollerate, anzi quasi incoraggiate. “Meglio, resteranno più volentieri in redazione”, diceva Scalfari. E poi vigeva anche un maschilismo oggi improponibile. “Laurenzi vinse il titolo di ‘culetto d’oro’, Vittoria Sivo conquistò la fascia di ‘miss Lady Fashion’, gli occhi più belli furono giudicati quelli verdi di Irene Bignardi”, dice Recanatesi.
Ma l’amore si faceva soprattutto col giornale, coi giornali. A piazza San Silvestro, dove c’era l’edicola aperta tutta la notte, si formavano ingorghi bestiali per avere le copie fresche (anche io, provinciale inurbato a Roma, facevo nei ‘90 i miei pellegrinaggi prima dell’alba. Sapere di poter comprare il giornale “del giorno dopo” mi sembrava la prova di vivere in un luogo civile). Bisogna pensare che i giornali erano “cool” come oggi, non so, le criptovalute. Oggi chi dicesse entusiasta: vado all’edicola di notte, ti fanno subito il Tso. Ma anche “mi hanno assunto nel tal giornale”, vedrebbe la delusione sul volto dei nostri cari: ma come, noi speravamo facessi l’influencer di pellicole per telefoni. Invece era un mestiere fichissimo. E poi a Rep. c’erano passioni, liti, risentimenti, pentimenti. Si sbatteva la porta, non ci si parlava per vent’anni, si tornava, e ogni volta comunque erano raddoppi di stipendio. Leggendari i tentativi di “fuga” di Paolo Guzzanti, che per due volte cercò di abbandonare Rep. “La prima per l’Europeo e poi al Corriere, e di quest’ultima mi sono sempre pentito”, racconta al Foglio. Perché Scalfari lo riacchiappava sempre. Ci fu il famoso episodio del fondatore che si sdraia a terra, ‘dovrai passare sul mio cadavere’, incontratolo fuori dall’ascensore, e quello appunto ci ripensa. “La terza volta andai alla Stampa e Scalfari disse con la sua voce da imperatore romano ‘adesso non posso più buttarmi a terra’. E Guzzanti imita perfettamente il vocione scalfariano. Così come imita perfettamente quell’uscere del Giornale della Calabria dove il Guzzanti era in forze, nella provincia dell’ impero, prima di arrivare a corte. “Dottòòòre Guzzanti, è il diretthore Scalfari da Roma”. E Guzzanti, appresa la buona novella che Scalfari lo vuole a Rep., prende la macchina e arriva alle 4 di mattina a piazza Indipendenza, dormendo un po’ lì, in auto, prima di essere ammesso alla sacra presenza.
Nella palazzina di piazza Indipendenza, prima di trasferirsi sulla fatale via Cristoforo Colombo, Rep occupava il terzo e quarto piano, mentre al quinto e sesto c’era e c’è ancora il Corriere dello Sport, di proprietà, il Corriere e la palazzina, della famiglia Amodei. Con l’arrivo di Guzzanti cominciò l’epoca anche delle leggendarie imitazioni di cui è maestro. Convocava col vocione di Scalfari terrorizzati redattori. Che andavano dal direttore, e quello diceva: no, non ti ho chiamato. Poi venivano riconvocati: scusa, ora mi ricordo il motivo per cui ti ho chiamato. Tornavano dal sovrano, e quello a quel punto si spazientiva. Ma la specialità della casa era l’imitazione di Sandro Pertini, presidente della Repubblica. “Una sera eravamo a cena da Gianni Minoli, c’era pure Ezio Mauro, si chiacchierava allegramente, e a un certo punto, saranno state le due di notte, si discuteva delle nomine Rai, per cui c’era una disputa tra socialisti e democristiani”, mi racconta Guzzanti. “Allora chiamo Flaminio Piccoli, presidente della Dc, e imitando perfettamente Pertini: ‘Flaminio, che fai, dormi?’. ‘Certo che no, presidente’, risponde quello tramortito dal sonno. ‘Sono molto arrabbiato per quel che sta avvenendo alla Rai, con questi socialisti! Tutti ladri! Vieni domani alle 11 per risolvere la questione’. Poi sempre con la voce di Pertini tira giù dal letto altri pezzi grossi degli altri partiti che si ritrovano poi tutti l’indomani mattina al Quirinale all’insaputa del presidente della Repubblica. Il quale poi inferocito chiama allora Repubblica, visto che non c’erano i cellulari, e gli passano il caporedattore toscano Magaglini, che, sentendo la voce di Pertini, pensa sia il solito Guzzanti, e risponde “o bischero, vedi di non rompe i hoglioni a quest’ora, che si sta lavorando”.
Era anche un posto dove ci si divertiva molto, insomma. “Dovevi proprio essere molto malato, avere una gran febbre per non andare in redazione”, sempre Recanatesi. E tante decisioni si prendevano a cena, come quella di introdurre lo sport, che inizialmente Scalfari aborriva. “Né cronaca né sport, perché Rep. doveva essere un giornale di pensiero, un secondo giornale”. Il clamoroso voltafaccia arriva una sera che Scalfari ha a casa il meglio dell’intellighenzia di Rep. e romana, incluso Enzo Siciliano, “ma è la sera della partita Italia-Argentina, e a un certo punto c’è un fuggi fuggi generale verso il televisore e Scalfari viene abbandonato a tavola, dove rimangono solo lui e la moglie, e lì capisce”.
Scalfari era attento a tutto, anche ai bagni. Leggendaria la circolare detta “l’editto dei cessi dal volto umano”. “Cari amici, ho avuto modo di notare che i gabinetti del nostro giornale hanno una manutenzione che versa in condizioni tali da rendere un obiettivo invidiabile il gabinetto della più turpe caserma di provincia (…). Non si comprende come mai una comunità di lavoro che dovrebbe avere un livello medio di civiltà e di pulizia, regredisca a livelli preistorici (...). Ho anche notato il rifiorire di un’abitudine che credevo venisse abbandonata dopo i 12 anni, e cioè quella delle iscrizioni e dei disegni su porte e pareti. Vorrei che ciascuno di voi (…) collaborasse in questo compito più modesto, ma basilare, facendo sì che a Repubblica anche i gabinetti abbiano un volto umano. Cordiali saluti, Eugenio Scalfari”.
Altri feticci per noi che amiamo i giornali, e la saga di Rep.: i tipografi che insolentivano tutti, anche il capo degli Esteri, Signorini, per un titolo troppo lungo (la stampa si faceva ancora col piombo; e i Signorini di allora non sono i Signorini di oggi); il libro blu della diffusione, la bibbia in cui Giancarlo Turrini, mago della distribuzione, che riusciva a far arrivare le copie del giornale anche nell’ultima edicola del più sperduto paese, annotava le vendite del giorno. Vendite che dal ‘76 della fondazione – il cinquantenario si tiene il 14 gennaio, tempismo crudele – all’86 compiono una cavalcata che nemmeno Scalfari aveva previsto, battendo il Corriere. In dieci anni, dal 76 all’86, Rep. riesce a diventare primo giornale. “Una cosa che in nessun altro paese è stata mai realizzata”, sottolinea Recanatesi. Contano anche piccoli stratagemmi: un tal Nicola Bovoli si era inventato un gioco a premi, Portfolio, rifiutato da tutti, dal Corriere e dal Sole, che invece fece fare il botto a Repubblica: il gioco convinse 200 mila nuovi lettori. “La sfida era poi di non perderli, ma di renderli affezionati”, dice Recanatesi. Il record, col “panino Repubblica, più Venerdì, più TeleVenerdì, un milione e cinquantamila copie”. Bovoli, scopro, era pure zio di Renzi.
Oggi, cosa resta di questa saga? “Niente, credo”, risponde Guzzanti. “Era tutto già finito con gli Elkann. All’inizio sembrava una soluzione positiva, viste le connessioni con la famiglia del passato. Poi invece è stato un disastro. Non ho mai capito perché l’abbiano comprato, il gruppo, sinceramente, per poi smembrarlo”, dice Donata Scalfari. “E ora arriva il greco, con Bin Salman. Non credo che mio padre sarebbe contento, ecco”. Manca, nel paese dove una serie non si nega a nessuno (pure su Playmen!) il film su Scalfari e la saga di Rep. “Un giorno mi ha contattato una produzione, mi hanno mandato uno sceneggiatore”, dice Recanatesi. “Ma dopo aver studiato molto mi hanno risposto che non intravedevano una figura-chiave della storia, e non se ne è fatto più niente”.