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Ricordi in libertà

Un'Italia senza Berlusconi? Impossibile

Alberto Mattioli

Il “mi consenta” e il birignao da cumenda come variazione sul tema del Dogui vanziniano, il nuovo miracolo italiano e il milione di posti di lavoro. Il Cav. è stato anche nazionalpopolare

Un’Italia senza Berlusconi? Improbabile, anzi: impensabile, meglio: impossibile. L’immaginazione rifugge. Sarebbe come dire: da domani, niente spaghettata, grande esodo ferragostano, campionato di calcio, festival di Sanremo, istituzioni che possono essere considerate meraviglie o sventure con plausibilità eguale e contraria, ma che comunque sono lì, a definire un’identità sempre più precaria ma ancora vitale. Berlusconi come maschera nazionalpop, la storia di un italiano raccontata da un Alberto Sordi milanese e sì, anche un po’ imbruttito. Berlusconi uno e trino, tivù, calcio e politica (e pure molto quattrino, in effetti). Per la nostra generazione, quella che ricorda ancora la tivù in bianco e nero, Silvio è stato come la Dc per quella che ci ha preceduto: c’era da sempre e, si credeva, sempre ci sarebbe stata, salvo poi rimpiangerla quando sparì. Abbiamo passato anni, anzi decenni, a parlare, leggere, discutere, litigare, dividerci su di lui. Il “mi consenta” e il birignao da cumenda come variazione sul tema del Dogui vanziniano, il nuovo miracolo italiano e il milione di posti di lavoro, il Caimano e il Cainano, il Cavaliere mascarato e le cene eleganti, i governi senza legittimazione popolare e la magistratura politicizzata, il comunismo miseria-terrore-morte, tutti nuovi generi letterari e cinematografici, colonne sonore delle nostre vite: adesso, puri fonemi senza più contenuto fattuale, mantra, slogan, lacerti di memoria consegnati alla storia, o forse alla nostalgia. Pure gli avversari, anche quelli storici, perfino Travaglio ieri in tivù per una volta senza il solito sorrisetto da Vysinskij che ha appena fatto confessare il sabotatore, paiono sinceramente dispiaciuti, solidali, forse spiazzati dall’ipotesi che sparisca dalla scena chi l’ha occupata fino alla massima capienza. E con meriti storici veri, diciamolo. Per un breve momento, ammanettata la Prima repubblica moderata, con i post o ex comunisti ancora coperti dei detriti del Muro pronti ad andare al potere (il potere non si prende, si raccatta, diceva De Gaulle), il Cav. chiamò “il Paese che amava” alla riscossa, venne vide e (stra)vinse. Il vero miracolo italiano che non ci fu e che non ci poteva essere, nel Paese delle chiese, fu quello di creare un vero partito liberale di massa, come capimmo abbastanza presto perfino noi che avevamo creduto che la trinità Thatcher-Reagan-Wojtyla potesse reincarnarsi sotto quel doppiopetto Caraceni.

E poi speranze e rimembranze, illusioni e delusioni, elezioni e coppe dei campioni, televendite e inni (“E Forza Italia, per essere liberi / e Forza Italia per fare e per crescere”, il fascino avvinghiante dell’horror), il kitsch forse perfino consapevole come moltiplicatore di consenso, le barzellette, le gag memorabili, le gaffe indimenticabili, la moltiplicazione delle zie laiche o consacrate, mamma Rosa, Veronica e la Pascale e la Fascina (e le altre), il presidente operaio, partigiano, sportivo, il “che fai, mi cacci?” di Fini (beh, sì), “mister Obama”, la nipote di Mubarak, Dudù e Dudina. “Una storia italiana” come nell’incredibile album per le politiche 2001, tipo figurine Panini o calendario di Frate Indovino, un’epoca intera di splendori e miserie collettivi adesso confinata dentro una stanza del San Raffaele, dove ci siamo anche noi, amici e nemici, chi l’ha supportato sempre e chi non l’ha sopportato mai. Berlusconi come autobiografia della Nazione, davvero (e infatti Gaber, genio: “Non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura del Berlusconi in me”). Forza Silvio.

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