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l'analisi

Sul dissesto idrogeologico, il governo prenda una svolta

Giulio Boccaletti

Con la nomina del commissario straordinario, l'esecutivo ha scelto di percorrere una terza via rispetto agli esempi già sperimentati in passato contro le emergenze climatiche. Ma se non dovesse funzionare, dovrà essere disposto a tornare indietro: e cioè all'unità di missione permanente

Il disastro che ha colpito l’Emilia-Romagna sembra aver sferzato la cabina di regia per l’emergenza siccità e sbloccato la nomina del commissario straordinario nel Cdm di ieri: l’incarica va a Nicola Dell’Acqua, direttore di Veneto Agricoltura e già direttore di Arpav. Una nomina che arriva in ritardo rispetto a quanto deciso nel decreto siccità pubblicato in Gazzetta il 14 aprile. La nomina del commissario era silenziosamente passata in secondo piano, presumibilmente vittima di discussioni irrisolte su chi potesse accreditarsi il merito di eventuali successi. L’idea sembrava del tutto scomparsa dal dibattito pubblico. Poi sono arrivate le piogge.

 

Da tempo i rovesci sono sempre più erratici e violenti. Questa volta sono scesi 200 millimetri d’acqua in meno di due giorni su parti dell’Emilia-Romagna, un quinto dell’intera precipitazione annuale. Questa non era la pioggia che serviva. A fronte di una tale quantità di acqua, gran parte del territorio, compattato dalla lunga siccità, si è comportato come una lastra di cemento. Invece di penetrare uniformemente nel suolo, l’acqua è scivolata nei torrenti, innalzandoli rapidamente e innescando quella roulette russa che sempre più frequentemente ci troviamo a giocare: reggeranno le difese idrauliche se sottoposte al loro limite? Questa volta un paio di argini non hanno retto. A scanso di equivoci, l’emergenza siccità continuerà. Parte dell’acqua che è scesa è andata in falda, ma molta è defluita a mare. In ogni caso non sostituisce il lento scioglimento delle nevi che proprio ora avrebbero dovuto alimentare il Po

 

Gli avvenimenti dell’Emilia-Romagna ci ricordano due fatti. Il primo è che la siccità, il dissesto idrogeologico, il rischio di alluvioni sono tutti parte dello stesso fenomeno: l’interazione tra l’acqua come espressione del clima e la nostra gestione del territorio. Questi rischi sono di fatto inseparabili. Il secondo fatto che questi eventi ci ricordano è più politico. Il modo con il quale i cambiamenti climatici si stanno manifestando presenta un test inusuale per una politica abituata a fare affidamento sulla memoria corta dell’elettorato. In passato, la statistica storica della meteorologia assicurava ai politici che eventi straordinari fossero sufficientemente rari da permettere alle persone di dimenticarsene. Ma non è più così. Non c’è alcun dubbio che tra oggi e le prossime elezioni nazionali avremo modo di assistere a numerosi, frequenti e intensi fenomeni di siccità e inondazioni. Questa è la nuova normalità

 

Negli ultimi anni abbiamo sperimentato tre teorie nazionali su come si possano affrontare questi problemi strutturali in un regime di eccezione. La prima, promossa nel 2014 dal governo Renzi e guidata da Erasmo D’Angelis, aveva creato una struttura di missione contro il dissesto idrogeologico, basata sull’idea che servissero risorse istituzionali significative, persistenti per anni, per sbloccare investimenti e superare imbuti burocratici, accelerando la risposta sul territorio. Una sorta di agenzia esecutiva per trasformare la prestazione delle istituzioni statali e regionali. 

 

Questa è una teoria conforme a ciò che si vede fare in altri paesi, dove servono interventi straordinari a fronte di governance complesse. E’ il caso, per esempio, degli interventi federali negli Stati Uniti. E’ un approccio che costa. Chiunque abbia partecipato alla pianificazione di programmi di infrastrutture complesse sa che spendere bene i soldi costa soldi. Come ordine di grandezza, ci si può aspettare di dover spendere fino al 10 per cento dell’investimento totale per condurre attività di pianificazione, documentazione, ed espletare pratiche legali e burocratiche. 

 

Spendere una decina di miliardi di euro, come si era ripromessa di fare la struttura di missione nei suoi primi anni, avrebbe richiesto un investimento commensurato in personale specializzato, risorse, gestione dei dati. I dati pubblicati e mai confutati sulle spese suggeriscono che la struttura stesse riuscendo ad accelerare gli esborsi a terra. Se quegli investimenti siano poi stati efficaci dal punto di vista idrogeologico lo si sarebbe potuto verificare, senonché la struttura e le sue banche dati sono state vittime della seconda grande teoria nazionale. 

 

Questa è stata avanzata dal primo governo Conte, del quale, a onore di cronaca, era membro anche l’attuale ministro Salvini, che oggi presiede la cabina di regia in attesa del commissario, e dall’allora ministro Costa. La loro teoria era che l’unità di missione fosse una struttura costosa e superflua, e che non servisse un coordinamento esterno ai ministeri. Le competenze e le risorse furono ridistribuite nel 2018. Quella teoria ha avuto 5 anni per dimostrare la sua efficacia. La risposta alla siccità negli ultimi due anni, e i danni causati sempre più frequentemente dalle alluvioni, da Ischia all’Emilia Romagna, dimostrano empiricamente che non ha funzionato. Risparmiare soldi non serve a nulla se si è inefficaci. 

 

La terza e ultima teoria è quella proposta dall’attuale governo. Una struttura molto più leggera e a tempo determinato (il commissario che si insedierà adesso rimarrà fino alla fine dell’anno, e il mandato potrà essere riconfermato una sola volta per il 2024). Un intervento breve, puntuale, una tantum per dare un proverbiale calcio alla miriade di strutture statali, regionali e locali che devono essere coordinate per cercare di accelerare la trasformazione del territorio che si rende sempre più necessaria. Questa terza teoria non è coerente con l’esperienza della maggior parte dei paesi sviluppati, ma tant’è: ogni idea può essere testata empiricamente, ancorché sulla pelle delle persone. 

 

C’è da sperare che la fortuna ci assista, ma poiché confidare nel fato non è una strategia politica seria, se il governo si rendesse conto di aver sottovalutato la difficoltà della propria missione, farebbe bene a riconsiderare l’esperienza della struttura di missione. Tutto è migliorabile, ovviamente. Ma ricominciare da zero ogni paio d’anni mentre il clima cambia, è il modo migliore per non ottenere nulla.

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