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UNA LISTA DEGLI SCONFITTI

Cronaca di quarant'anni di feroci e autolesionistiche battaglie politiche sul Mose

Giorgio Barbieri

Piazza San Marco bagnata ma non inondata dall’acqua alta segna un punto di non ritorno nella disputa sulla grande diga. Gli errori di Cacciari e compagnia

Venezia. “Abbiamo perso. Però il giorno che inaugureranno il sistema Mose scoprirò una lapide dove si leggerà ‘Queste opere sono state realizzate contro la volontà del sindaco di Venezia’”. Firmato Massimo Cacciari. Fortunatamente per il filosofo, furioso per la decisione di Romano Prodi di non fermare i cantieri, quella lapide non è mai stata commissionata. Avrebbe però avuto il merito di scolpire su pietra quarant’anni di feroci battaglie politiche tra Venezia e Roma.
Le immagini che hanno mostrato al mondo piazza San Marco bagnata dalla pioggia ma non inondata da un metro di acqua alta, nonostante in Adriatico la marea avesse fatto registrare la quota record di 173 centimetri, hanno probabilmente segnato un punto di non ritorno nella disputa sul Mose, l’enorme diga gialla che martedì mattina ha evitato un disastro pari a quello del novembre 2019. La grande opera affondata in laguna ha infatti dimostrato di funzionare e il superamento del primo vero stress test è stato accolto con soddisfazione non solo dai veneziani, finalmente liberi dall’angoscia di dover correre per mettere al riparo dall’acqua le abitazioni e i negozi ai piani terra, ma anche da tutti coloro che per quasi mezzo secolo ne hanno difeso l’efficacia. 

 

Ma sarebbe fuorviante liquidare quarant’anni di polemiche in una semplice contrapposizione tra “popolo del Sì” e “popolo del No” alle grandi opere, paragonando il Mose a un qualsiasi intervento autostradale. La sua genesi, la sua storia e le dure contrapposizioni che l’hanno visto protagonista rappresentano infatti un unicum non solo per il teatro in cui si sono svolte, la città speciale per eccellenza, ma anche per la qualità dei protagonisti che in questi anni hanno incrociato le lame. Perché è vero che le più spettacolari manifestazioni anti Mose sono state organizzate dai centri sociali, dai comitati “No grandi navi” e dalle associazioni ambientaliste di ogni ordine e grado, ma a dare loro “copertura politica” nelle diverse epoche ci sono stati veneziani e intellettuali di primo piano e al di sopra di ogni sospetto ideologico: dal repubblicano Bruno Visentini al comunista Gianni Pellicani, dal luminare dell’ingegneria idraulica Luigi D’Alpaos al patron dell’Harry’s Bar Arrigo Cipriani. Senza dimenticare ovviamente Massimo Cacciari che ha fatto dell’opposizione al Mose e al Consorzio di imprese che l’ha progettato e costruito la missione (fallita) dei suoi mandati alla guida della città.

   

La storia del Mose non può infatti essere separata da quella del Consorzio Venezia Nuova, il “mostro giuridico”, e non è possibile comprendere le critiche all’opera senza comprendere quelle rivolte a chi ha realizzato gli interventi senza controlli di alcun tipo, con le inevitabili storture che sono poi venute a galla con la “Retata storica” del 4 giugno 2014, che portò all’arresto anche dell’ingegner Giovanni Mazzacurati, il padre delle dighe mobili. Perché sulla salvaguardia della laguna le contrapposizioni sono state su due livelli. Sui temi di ingegneria idraulica (l’opera funzionerà oppure no) ma anche su fondamentali aspetti di natura economica: i rischi legati al monopolio, la contrapposizione tra tecnica e politica, lo strapotere della burocrazia. 

 

Per conoscere i protagonisti di questa saga bisogna però tornare agli anni Ottanta quando non si discuteva tanto di Mose, un’opera in gestazione e ancora lontana, ma dei grandi progetti per la città pensati da Gianni De Michelis, ministro prima delle Partecipazioni statali e poi degli Esteri e infine vicepresidente del Consiglio. Su tutti l’Expo 2000 contro il quale si coalizzarono quelli che saranno anche i principali avversari del Mose. De Michelis era convinto di poter portare Venezia nel Terzo millennio attraverso una dotazione di infrastrutture – aeroporto, strade, alberghi – in grado di favorire un salto in avanti alla città. Contro il ministro veneziano si alzò però un fuoco di sbarramento da più fronti, da Visentini a Cacciari fino a Marco Pannella, dagli ambientalisti guidati dal giovane Gianfranco Bettin fino agli architetti capitanati dagli urbanisti dello Iuav Stefano Boato ed Edoardo Salzano. E poi professionisti e intellettuali come Gherardo Ortalli, storico a Ca’ Foscari, Andreina Zitelli, docente Iuav e dirigente del Pri, Andrea Zanzotto e altri ancora. Tutti nomi che saranno protagonisti anche negli anni successivi.

 

Ma oltre all’opposizione da sinistra, De Michelis si trovò di fronte anche ad avversari interni al suo partito come Carlo Ripa di Meana, futuro commissario europeo alla Cultura. E così, anche sull’onda delle violente polemiche di qualche mese prima per il concerto dei Pink Floyd in bacino a San Marco, Giulio Andreotti scelse di ritirare la candidatura di Venezia a pochi giorni dalla decisione del Bureau Internazionale delle Esposizioni Universali.

 

La bruciante sconfitta di Gianni De Michelis diede così slancio al fronte che gli si era opposto diventando anche una sorta di prova generale di quello che accadrà con il Mose. 

 

Il Doge socialista era stato infatti il padre della norma che nel 1984, in deroga alla legislazione sui lavori pubblici, istituiva di fatto il monopolio affidando al neonato Consorzio Venezia Nuova gli studi, la progettazione e la realizzazione delle opere per la salvaguardia lagunare. La motivazione era quella di fare presto. “La legge su Venezia è finalmente stata approvata e questa è una prova di fiducia della nazione verso la città”, aveva spiegato. Di diverso avviso era Visentini, all’epoca ministro delle Finanze e a lungo presidente della Fondazione Cini, per il quale si stava invece incorrendo “in alcuni fondamentali errori di metodo e in alcune inammissibili elusioni di competenze decisionali. L’incarico non può avere per oggetto le scelte sull’avvenire della laguna perché tali scelte spettano all’organo politico”. “Il Consorzio è più forte dello Stato”, gli aveva fatto eco Gianni Pellicani, storico vicesindaco di Venezia e leader del Partito comunista in Veneto vicino a Giorgio Napolitano, “a controllare dicono che ci sarà il Magistrato alle Acque. Ma che peso può avere di fronte all’esercito di scienziati messi in campo dal Consorzio?”.

   

Con Tangentopoli tutto cambia anche in laguna. “Sono stato presidente del Consorzio Venezia Nuova per dieci anni, nel pieno delle inchieste giudiziarie”, ha ricordato Luigi Zanda, “avevo creato un sistema di prevenzione: in linea generale, i subappalti erano vietati, salvo per motivi tecnici comprovati. Avevo nominato anche un comitato di garanzia composto da esimi giuristi. Non ebbi mai un richiamo da parte della procura”. Andò invece diversamente a un giovane ingegnere di area democristiana, Piergiorgio Baita, arrestato nel giugno del 1992 con l’accusa di corruzione. Ai magistrati spiegò nel dettaglio gli accordi tra i partiti per spartirsi i fondi della salvaguardia e con le sue parole stroncò le carriere di parecchi esponenti politici, tra i quali proprio di De Michelis.

 

Ma è con la fine di Mani pulite che riprende intensità la battaglia sul Mose. Nel 1993, grazie alla riforma che istituì l’elezione diretta dei sindaci, Massimo Cacciari entrò per la prima volta a Ca’ Farsetti avviando un più che decennale braccio di ferro con tutti i governi che si sono succeduti. “Se lo Stato ha i 7.000 miliardi di lire da spendere, faccia quello che deve fare”, aveva tuonato nel 1994 dopo una decisione ministeriale sul Mose che non condivideva, “ma è ridicolo che si stia qui a discutere di cose che sono al di là dell’orizzonte quando non abbiamo neanche fazzoletti per asciugarci le lacrime, quando non ci sono i soldi per i lavori ordinari, quando io ogni giorno tempesto il governo per avere 10 miliardi di lire dalla Finanziaria”.

 

Per un decennio è il caos totale: da una parte c’è chi si oppone alla grande opera salvifica con in prima fila Cacciari, spalleggiato dai movimenti ambientalisti, dai Verdi di Edo Ronchi e da una parte del mondo accademico. Dall’altra parte c’è un fronte bipartisan che vuole invece procedere spedito con l’apertura dei cantieri. Nel mezzo ci si mette anche la burocrazia con continui rimpalli di pareri tra ministeri, nomine di collegi di esperti internazionali e ricorsi al Tar che ribaltano i provvedimenti ministeriali. E’ però con l’elezione di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi nel 2001 che la macchina Mose prende definitivamente il via. Il progetto viene approvato nonostante a Venezia si rischi una crisi di giunta a causa degli scontri tra il nuovo sindaco Paolo Costa, ex ministro ed ex rettore da sempre favorevole alle barriere mobili, e l’ala rossoverde della sua maggioranza capitanata dal prosindaco ambientalista Gianfranco Bettin che, ancora oggi, rivendica la sua battaglia: “Il Mose è un’opera del Ventesimo secolo che non risolve le questioni del Ventunesimo secolo. Pensato per chiuderlo tre volte l’anno, verrà chiuso decine di volte con il rischio di fare fuori il porto e la pesca, pilastri dell’economia veneziana”.

 

Nulla sembra più fermare il Mose nonostante Cacciari provi per l’ultima volta a mettersi di traverso dopo essere stato eletto sindaco per la terza volta nel 2005. Ma è nuovamente tutto inutile dato che il presidente del Consiglio, questa volta Romano Prodi, decide che i lavori debbano proseguire. Nel frattempo alle spalle di Cacciari è cresciuto un movimento di opinione molto forte che, oltre al Mose, contesta il passaggio delle navi da crociera di fronte a San Marco, le possibili svendite di beni storici come l’Arsenale e il turismo selvaggio che sta invadendo la città. I centri sociali, guidati dal Tommaso Cacciari, organizzano le scenografiche manifestazioni con le barche, ma accanto a questi si posizionano molti di coloro che vent’anni prima si erano opposti a Expo. Tra i critici del Mose ci sono poi anche figure insospettabili come Arrigo Cipriani, che da dietro il bancone dell’Harry’s Bar in Calle Vallaresso di acque alte ne ha viste a decine e ha sempre espresso un’idea chiara. “Secondo me Venezia è in balia di sé stessa”, disse dopo il disastro di tre anni fa, “quest’opera non difenderà mai la città dalle acque alte”.

 

Non va però commesso l’errore di addebitare i clamorosi ritardi del Mose agli ambientalisti e agli scettici. Dal 2003, quando sbarcò in laguna Silvio Berlusconi per l’inaugurazione del cantiere, niente si è infatti più messo di traverso. E’ stata invece la magistratura, nel giugno 2014, a portare alla luce l’enorme sistema corruttivo che aveva prosperato all’ombra della diga e ne aveva ritardato la realizzazione. L’inchiesta, coordinata dall’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio, decapitò i vertici del Consorzio Venezia Nuova con l’arresto di 35 persone tra cui politici, magistrati, finanzieri ed ex presidenti del Magistrato alle Acque. Da allora è stato anche un susseguirsi di pasticci politici. Matteo Renzi prima commette l’errore di credere sia sufficiente affidare la questione all’Anac di Raffaele Cantone e poi chiude un’istituzione storica come il Magistrato alle Acque (tutte vicende raccontate con Francesco Giavazzi nel libro “Salvare Venezia” nel quale, pur non entrando nella disputa sull’efficacia della grande opera, vengono raccontate le conseguenze negative dovute al monopolio). Alla guida del Consorzio si succedono quattro commissari e, dopo l’alluvione del novembre 2019, un supercommissario, tutti nominati dal governo. Per fortuna, dopo 40 anni e oltre sei miliardi di euro spesi, ora il Mose ha dimostrato di poter difendere Venezia. 

 

Martedì mattina tutti si sono detti soddisfatti, i favorevoli e i contrari. Ma non c’è tempo da perdere. Il governo Meloni deve nominare al più presto i vertici dell’Autorità per la laguna, l’ente che avrà il compito della gestione e della costosissima manutenzione delle dighe (le stime parlano di 100 milioni di euro l’anno). Una struttura che avrà quindi il compito fondamentale di continuare a garantire la protezione della città. Venezia non aspetta. Molti sono infatti i nuovi progetti già pronti per essere realizzati, dallo scavo di nuovi canali alla realizzazione di un porto off shore fuori dalla laguna, e sui quali gli “orfani del Mose” sono pronti a tornare a litigare e a dividersi, magari per un altro mezzo secolo. Perché va sempre tenuto a mente il fulminante assioma formulato da Gianni De Michelis ai tempi di Expo: “Con il nome di Venezia anche le idee più stupide hanno successo”.

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