Zalone e la Stonewall italiana di Sanremo

Michele Masneri

Vedere il monologo del comico al Casinò dove cinquant'anni fa nacque il movimento di liberazione omosessuale

Chissà se Amadeus e gli autori di Sanremo lo sanno, se lo ricordano, che proprio qui, nella “città dei fiori”, si svolse cinquant'anni fa la piccola Stonewall italiana, la Stonewall che ci possiamo permettere in un paese in cui, eccetera. Correva l’anno 1972, e il giovane Angelo Pezzana, fondatore del FUORI (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano)  si arrabbiò moltissimo con uno psichiatra italiano che aveva apostrofato un povero gay come “l’infelice che ama sé stesso” (la parola omosessuale era vietatissima, pare ieri, ma nei giornali non si poteva neanche scrivere “membro”, bisognava dire “componente”; oggi invece “culo” è roba da prima serata, anche a Sanremo).

 

Insomma qui è nato tutto. Pezzana e un manipolo di contestatori-gentiluomini picchettarono il congresso di psichiatri, e furono elegantemente portati in caserma. “Lei è uno psichiatra?”, gli chiesero i cronisti. “No, sono un omosessuale”, rispose Pezzana. “Ma non lo posso scrivere, nessuno l’ha mai scritto”. “Sia lei il primo”, rispose favoloso il Pezzana. L’Italia, improvvisamente, lentamente, cominciò a uscire dai “balletti verdi” e da quei riferimenti lì.

 

Qui è nato tutto, e oggi fa impressione vedere questo Sanremo dalla sala stampa del festival che sta proprio nel medesimo casinò, cinquant’anni dopo esatti (avranno in mente una rievocazione, dopo quella di Monica Vitti?).  Il casinò resta sullo sfondo con un’animazione grafica a fiori e la parola “Slot machine” rifulge (atmosfera di malinconia come in tutti i casinò). E  la serata di Zalone la si è guardata in un ristorante lì accanto, vecchiotto, con vecchi manager di star canore, coi capelli tinti; i televisori si inceppavano in continuazione.

 

Poi improvvisamente calava il silenzio nel salone composto di agenti, truccatori, staff vari di cantanti in gara, col monologo, il primo, di Zalone. Un po’ perché “il trans brasiliano”, forse nelle nostre bolle, non si sentiva dal 1992, o forse dal 1972, un po’ perché forse questa bolla è ormai il paese intero. E la battuta su Lapo, il povero Lapo che nel frattempo ha messo la testa a posto, pareva ingenerosa, vecchia. Tutti guardavano nel piatto, e non pareva un pubblico particolarmente woke, era una provincia fattiva, non lettrice di Judith Butler. Il problema del monologo, il primo, di Zalone, è che forse avrebbe fatto ridere all’epoca del FUORI, ma oggi sembra davvero vecchio, più che razzista. La banana e la fragola. Le battute sul chinarsi. Siamo sul vintage?

 

Ci sarà del metodo? E’ il metodo Zalone, l’uno-due che funziona sempre? Prima la spari grossa, dici roba improponibile e poi dopo ecco, vedete, non sono razzista ma? Così nei promo dei suoi film, quando lancia la canzone “Immigrato” (Immigrato Favorisci pure l'altro lato/ Immigrato/Ora dimmi perché mi hai puntato), e poi dopo invece "il film non è razzista! Io ho descritto la società!"

 

E te pareva. Zalone vince facile nel mondo ormai bipolare non in senso politico ma neurologico, che si indigna o ghigna per due ore e poi si dimentica tutto, e col neurone rimanente ti ricorderai dell’ultima cosa, non della prima, e della cosa buona, non della cattiva (metodo Dino Risi: su 100 film, la gente si ricorderà tre capolavori, contro il metodo Pontecorvo, la ricerca faticosa del capolavoro a tutti i costi). Dunque il monologo-razzista-che-non-fa-ridere lo fa per primo, mica è scemo. Ci ricorderemo gli altri due, quello strepitoso sul finto Fedez “poco ricco” e sul virologo cugino di Al Bano.

 

E non è che ridiamo solo sulle disgrazie altrui, o che Zalone “fa ridere proprio perché colpisce dove ci fa più male”, come dice qualcuno. Che si sappia, virologi e influencer non vengono odiati o menati in quanto virologi o influencer (anche se qualcuno vorrebbe); possono persino sposarsi tra di loro e adottare bambini, gli sponsor adorano, tra l'altro. Non sono neanche stati perseguitati con speciali stelle ad Auschwitz. Dunque sì, non c'è da farla troppo lunga, sfottere gli omosessuali e le persone trans in questo modo non fa ridere, accettiamolo, è il 2022, non il 1972. Lo diciamo per te, Checco: prender per il culo minoranze tartassate ispira pena più che moto di spirito, è proprio fisiologico.

 

E poi c’è il Metodo Amadeus: in generale l’uso cinico e sgangherato delle tematiche “sensibili”, che vien fuori sgangherato perché forse è il paese che è sgangheratissimo, al momento, reduce da Covid e dalle Quirinarie più pazze del mondo, i capi dei servizi segreti si fanno i selfie coi ministri, le presidenti del Senato televotano, insomma tenere insieme tutto è impossibile. Anche a Sanremo. E dopo il discorsetto della attrice di colore, arriva Iva Zanicchi che le dice un “carina sei!”, e crolla tutto il mood antirazziata, viene in mente Montanelli e la schiava nubiana (cit.).  

 

Ma soprattutto, di nuovo, è interessante l’uso sanremese del tema gay: il Cencelli Lgbt che vede un camp scatenato ovunque, gheismo all’ennesima potenza, la fluidità è antica o lo sarà presto, Achille Lauro scavalcato a sinistra dai Maneskin.  Poi il duetto più erotico degli ultimi anni, Mahmood e Blanco modernissimi e contemporanei (certo il primo dovrebbe riflettere sull'effetto-confronto, a vederli insieme pare il padre del fantastico diciottenne bresciano a cui Harry Styles fa un baffo). Ma poi accanto  riecco il 1972, il bravo presentatore che bacia il direttore di Rete, e il massimo comico nazionale che parla con voce roca in portoghese, e dice fragola e banana. Forse l'Italia ha un problema più serio di quello che vuole ammettere con l'omosessualità, o forse con la contemporaneità in genere. Forse Sanremo è sempre specchio del paese. Di sicuro, caro Zalone, quando tu facevi i tuoi monologhi, qui a Sanremo eravamo già f***i da cinquant’anni.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).