Addio Duca D'Aosta, il principe del "se"

Francesco Palmieri

Se la numerologia dei calendari fosse solo superstizione velleitaria, sarebbe puro caso leggere gli obituaries di Amedeo sui giornali del 2 giugno, Festa della Repubblica

I vietatissimi “se” alla Storia non li mette chi di Amedeo duca di Savoia e duca d’Aosta scrive in quest’occasione, ratificando in cronaca la morte a 77 anni del principe tatuato e imprenditore, viaggiatore, ecologista, navigatore; figlio di Aimone già re di Croazia e Irene di Grecia; “parente serpente” del cugino Vittorio Emanuele; zio suo malgrado di Emanuele Filiberto, giurato della trasmissione Amici e fondatore di movimenti politici.


I “se” alla Storia li avevano apposti Juan Carlos di Spagna, cui Amedeo sospese sopra il capo la corona nel giorno delle nozze con Sofia; o Elisabetta d’Inghilterra, che mai nascose al principe italiano regale e personale simpatia al pari del consorte Filippo, cugino della madre di Amedeo. Sono loro che avrebbero preferito un Aosta, e un Aosta come quello, se Roma fosse tornata monarchica. E lo avrebbe preferito una parte dei monarchici italiani, che nel 2006 votò Amedeo, nella postuma Consulta dei Senatori del Regno, quale Capo della Real Casa Savoia e legittimo pretendente al trono, scontando Vittorio Emanuele il matrimonio con una borghese senza il regio assenso del genitore, l’esule all’epoca Umberto II. Mai s’è spenta l’accesa (forse patetica) controversia, eruttando in una epica zuffa tra i cugini alle nozze del re Felipe nel 2004. E chissà se o come la spegnerà Aimone, manager di profilo internazionale e figlio successore di Amedeo.


Se la numerologia dei calendari fosse solo superstizione velleitaria, sarebbe puro caso leggere gli obituaries di Amedeo sui giornali del 2 giugno, Festa della Repubblica. Se invece non lo fosse, si dovrebbe ricordare che gli Aosta al trono non hanno rinunciato, e che padre Pio profetizzò la caduta dei Savoia ma il ritorno della monarchia sotto quest’altro ramo tra i due decisamente migliore. Se non altro per valore: vantando un Amedeo eroe dell’Amba Alagi, zio di quello appena defunto, cui gli inglesi resero gli onori militari ma che poi lasciarono morire in un campo di concentramento nel ‘42. Vantando prima ancora Emanuele Filiberto, “duca invitto” della Prima guerra mondiale, estensore del lirico “testamento spirituale” che tuttora campeggia, su marmo, nella sala stampa del Senato  (“[…] innalzo a Dio il mio pensiero riconoscente per avermi concesso nella vita infinite grazie ma soprattutto quella di servire la Patria ed il mio Re con onore e umiltà[…]”).


Il 2 giugno, celebrando la vittoria della repubblica sulla monarchia al referendum del ‘46, i quotidiani registrano l’addio all’altro principe, che non tradì l’aspirazione al trono, che non vide l’8 settembre perché nacque pochi giorni dopo, il 27, e fu internato subito con la famiglia in un campo tedesco. Chi ripensa agli Aosta pensa all’Amba Alagi, alla spedizione al Polo Nord del duca degli Abruzzi, alla terza armata di (quell’)Emanuele Filiberto. Non al re sciaboletta, alle leggi razziali o alla fuga di Brindisi. Non ripensa a quella scena di Una vita difficile, capolavoro di Dino Risi, quando Alberto Sordi e Lea Massari s’imbucano per caso in una grottesca tavolata di monarchici che aspettano l’esito del referendum istituzionale dalla radio: una carrellata di freaks, goyesca rappresentazione di quel mondo in via di sfratto assieme alla pusillanimità dei Savoia.


L’idea monarchica può essere lecitamente detestata, ma detratto l’eroismo degli Aosta venne allora anche derisa. Eppure chi ricorda con tenerezza quanto risultassero vetusti, verso la fine del secolo scorso, quei circoli repubblicani dove ancora campeggiava l’ascetico ritratto di Mazzini, potrebbe anche non escludere che un giorno la profezia – auspicabile o detestabile – di Padre Pio finisca per avverarsi. Mai dire mai (ma è maleducazione dirlo un 2 di giugno).

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