L'altra ondata

Luca Gambardella

L’Europa fragile della pandemia messa a dura prova dai migranti. Una raccolta di voci, testimonianze e idee, da Tripoli a Lampedusa, passando per Roma e Bruxelles. Per capire se la solidarietà fra le due sponde del Mediterraneo esiste davvero. O se è solo una grande ipocrisia

Nel dicembre del 2017, sulle colonne di Politico Europe comparve una lettera firmata dall’allora commissario europeo agli Affari interni, il greco Dimitris Avramopoulos. Il suo intervento, tranchant, fu titolato né più né meno che così: “I migranti in Europa sono qui per restare”. Avramopoulos teorizzava come l’immigrazione andasse gestita politicamente, piuttosto che in modo emotivo, a seconda degli strepiti di una parte o dell’altra. “E’ ora di dire la verità – iniziava il ragionamento – L’immigrazione non può e non potrà mai essere fermata”. Più realista che fatalista, il leader del centrodestra greco concluse la lettera con una proposta che rasentava l’irriverenza: “Alla fine, noi dobbiamo essere pronti ad accettare l’immigrazione, la mobilità e la diversità come la nuova regola e adeguare le politiche di conseguenza. L’unico modo per rendere l’asilo e le politiche migratorie a prova di futuro è cambiare collettivamente il nostro modo di pensare”. Sarebbe superficiale leggere queste parole come fossero una provocazione, oggi che sappiamo che l’immigrazione è un problema strutturale gestito come fossimo in uno stato di emergenza costante. Avramopoulos aveva invece offerto una proposta più concreta di quanto si possa pensare: le risposte che negli ultimi anni i sovranisti di ogni risma, da una parte all’altra dell’Europa, hanno tentato di dare all’immigrazione sono semplicemente fallite, perché inadeguate e sconnesse dalla realtà dei fatti. Il numero degli arrivi via mare in Europa continua a diminuire ogni anno: i 95 mila sbarcati nel 2020 sono il 23 per cento in meno rispetto a quelli del 2019, addirittura il 33 per cento in meno se confrontati a quelli del 2018. Nonostante i dati dicano che non esiste un’emergenza immigrazione, sebbene per l’Eurobarometro la storia dell’“invasione” sia calata di 13 punti tra il 2019 e il 2020 nelle preoccupazioni dei cittadini europei, il tema dell’asilo resta uno fra i più politicizzati e polarizzanti.

 

Le risposte che negli ultimi anni i sovranisti, da una parte all’altra dell’Europa, hanno tentato di dare all’immigrazione sono  semplicemente fallite, perché inadeguate e sconnesse dalla realtà dei fatti

 

Da Lampedusa, il sindaco del primo approdo d’Europa ce lo spiega chiudendo la telefonata: “Vede, il punto è che l’immigrazione non la risolverà Meloni, che vuole schierare i militari nel Mediterraneo e fare il blocco navale. E non la risolverà nemmeno Salvini, che voleva chiudere i porti e che invece non ha capito che mai nemmeno un solo porto è rimasto chiuso”. E così, in queste prime settimane di primavera, Totò Martello continua a fare ciò che ha sempre fatto in questi anni: contare gli arrivi sulle coste dell’isola. “Da tre giorni non sbarca nessuno perché il mare è  mosso, ma nell’hotspot abbiamo avuto anche un migliaio di persone. E se ora gli arrivi sono già così tanti… Sa come si dice, no? Se il buongiorno si vede dal mattino…”. 

 

 

E’ martedì 6 aprile. Il premier italiano Mario Draghi è a Tripoli, fra i primi leader europei giunti nel paese nordafricano per toccare con mano quanto sia verosimile oggi parlare di “nuova Libia”. Porta con sé dossier economici importanti da sottoporre al nuovo governo di unità nazionale: dall’Autostrada della Pace, agli investimenti nell’energia fino alla ripresa dei voli civili verso l’Italia. Il nuovo primo ministro libico, Abdulhamid Dabaiba, viene dal mondo degli affari e ha già assicurato con un’intervista al Corriere, qualche giorno prima, che la sua lingua non è quella delle armi, ma quella degli investimenti e del denaro: “Ci schiereremo dalla parte di chi ci aiuterà a ricostruire il paese, senza distinzioni”. Quell’inciso finale – “senza distinzioni” – se da una parte lascia ben sperare la delegazione italiana sbarcata a Tripoli, dall’altra la mette in guardia, perché suona più o meno così: cari italiani, se giudicheremo le vostre proposte non adeguate, accetteremo l’aiuto di qualcun altro. Sullo sfondo c’è sempre il tema dei migranti, su cui la nostra delegazione non può che essere estremamente sensibile. Dopo il vertice con Dabaiba, Draghi sale sul podio della conferenza stampa e si complimenta con lui pubblicamente: “Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo la aiutiamo e assistiamo. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l’Italia è uno dei pochi paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”. Draghi non menziona esplicitamente i centri di detenzione, luoghi di torture sistematiche a cui sono sottoposti i migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica.

 

 Draghi a Tripoli non ha menzionato esplicitamente i centri di detenzione, luoghi di torture sistematiche a cui sono sottoposti i migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica

 

Accenna però che un problema umanitario esiste e che l’Italia ne è cosciente. In patria, però, si innesca subito una spaccatura nella sinistra che sostiene il governo. “Dirsi soddisfatti della sistematica violazione dei diritti umani è inaccettabile. Persino Marco Minniti, il padre degli accordi libici per fermare i migranti, ha preso le distanze da quel ‘modello’”, commenta Matteo Orfini. Per Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Pd, “bisogna inserire le parole di Draghi nel nuovo approccio: stabilità libica e lotta ai traffici illeciti”. Eppure, le parole del premier che erano senza dubbio contestabili erano piuttosto quelle che paradossalmente sembravano essere sfuggite a molti osservatori indignati. Secondo i dati dell’Unhcr, finora l’Italia non ha mai avviato dei corridoi umanitari dalla Libia, anche se da tempo al Viminale è in corso una trattativa con le organizzazioni umanitarie per farli partire; invece, dal 2017, il nostro paese ha preso in carico 913 persone evacuate, che però rientrano in uno schema umanitario differente dai corridoi citati da Draghi. Giorni dopo, il premier preciserà a tutti che durante i colloqui avuti ha ribadito al governo libico “la preoccupazione per i diritti umani” e l’orientamento dell’Italia “al superamento dei centri di detenzione”. Sarà l’ex ministro Minniti, in un’intervista al Post internazionale, a puntualizzare ulteriormente: “C’è un dato che fa venir meno una certa ipocrisia. Il Memorandum of understanding firmato dall’allora presidente del Consiglio italiano Gentiloni e da al Serraj, tanto discusso, è tuttavia ancora operativo”. E ancora: “Credo che non fosse nell’intento di Draghi sottovalutare tutti i problemi che ci sono in Libia per quanto riguarda il governo dei flussi migratori”.

 

 Il premier ha parlato di investimenti, ma senza una linea politica potrebbe non bastare. E sui migranti la situazione è drammatica. Cochetel (Unhcr): “Non c’è alcun miglioramento”

 

E’ innegabile che un problema umanitario in Libia esista, certificato da ogni tipo di organizzazione internazionale e non governativa. Ma questo è solo una parte di un problema più ampio: per ristabilire una sorta di stato di diritto nel paese bisogna passare per una pacificazione. Illudersi che questa sia già stata raggiunta sarebbe un errore. E tuttavia, l’approccio del “poteva andare peggio” o dello “speriamo bene” non coinvolge solamente la diplomazia italiana. Lo stesso giorno in cui Draghi si reca a Tripoli, l’ex capo della missione Onu in Libia, il libanese Ghassan Salamé, rilascia un’intervista al quotidiano egiziano al Ahram in cui spende parole tinte di amarezza e sfumature grottesche. “Sì, certo che sono preoccupato della situazione in Libia – dice al giornale – Potrebbero iniziare nuove operazioni militari qui e là, c’è il problema delle mine sparse ovunque, restano molti ostacoli, le interferenze straniere non sono finite assolutamente, la strada costiera (la cosiddetta Autostrada della Pace, che va da est a ovest, ndr) non è ancora stata aperta. Ma comunque credo la Libia stia molto meglio oggi rispetto a un anno fa”. Per tre lunghi anni, Salamé faceva la spola fra Tripoli e New York per convincere mezzo mondo che, fin quando i mercenari stranieri non se ne fossero andati, la Libia sarebbe rimasta una polveriera. Il suo fallimento nel convincere russi e turchi culminò con le dimissioni del marzo 2020. Oggi le milizie russe della Wagner e quelle inviate da Erdogan sono ancora al loro posto e anche se il nuovo governo di unità nazionale continua a chiedere aiuto alla comunità internazionale – e all’Italia in particolare – affinché interceda per allontanarle, Salamé ha fatto capire che la Libia tornerà ai libici solo fra molto tempo. 

  

Per gestire davvero le partenze servirebbe che l’approccio inaugurato da Marco Minniti fosse applicato nella sua interezza, così come ideato in origine, invece che lasciato a metà rivelandosi deleterio dal punto di vista umanitario. Finora, l’Italia ha finanziato la Guardia costiera libica senza curarsi della “fase due” del piano Minniti, ovvero quella che si occupava della loro gestione a terra. Così oggi “la Libia resta un porto non sicuro”, ribadisce al Foglio Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale. L’alto funzionario delle Nazioni Unite riconosce che la transizione politica, la strada che porta verso la stabilizzazione della Libia “è un aspetto positivo”, ma chiarisce che “in questa fase non notiamo alcun miglioramento dal punto di vista della sicurezza dei migranti e dei rifugiati. Le partenze irregolari via mare probabilmente continueranno, così come le intercettazioni dei barconi da parte della Guardia costiera libica”. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ha annotato a quanto ammonta l’entità degli interventi in mare fatti dai libici: “Al 19 marzo scorso, nei primi tre mesi del 2021, delle 6.244 persone partite dalle coste occidentali il 65 per cento è stato intercettato dalla Guardia costiera di Tripoli. Un dato – ci spiega Villa – che è in netta crescita rispetto al 2020, quando gli intercettati erano stati il 42 per cento di chi era partito”.

 

 “Ci sono sviluppi positivi sulla transizione politica in Libia, ma sui migranti con ogni probabilità vedremo gli stessi problemi dal punto di vista della violazione dei diritti umani e del sovraffollamento nei centri di detenzione”, ci dice Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr

 

Negli ultimi mesi, il governo di unità nazionale libico si è attivato per chiudere i centri di detenzione. Un’operazione dopo l’altra, è stata soprattutto la 444esima brigata a sgominare diversi gruppi di trafficanti di esseri umani, in particolare nella zona di Bani Walid, a sud di Tripoli. Si tratta di forze speciali tra le meglio equipaggiate del paese, addestrate – con somma disdetta italiana – dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, nostro diretto concorrente in Libia. Piccola nota a margine: i turchi sono attivi anche nell’addestramento della Guardia costiera libica e insegnano alle milizie locali come pilotare e fare manutenzione alle motovedette che talvolta – ironia della sorte – sono state donate proprio da noi italiani. A ogni modo, ci spiega Cochetel, queste operazioni di polizia contro i trafficanti di esseri umani non devono illudere: “E’ uno sviluppo positivo, certo, ma la tendenza successiva è a sua volta quella di raggruppare i richiedenti asilo e i rifugiati liberati in altri campi. Riportandoci alla stessa situazione di due anni fa. Con ogni probabilità vedremo gli stessi problemi dal punto di vista della violazione dei diritti umani e del sovraffollamento nei centri di detenzione”. Come fermare il traffico di esseri umani, dunque? “La Libia ha bisogno di assistenza per elaborare una politica migratoria organica, che tenga conto delle esigenze del paese – come ad esempio la regolarizzazione dei flussi dei lavoratori provenienti dalla Tunisia – ma tenendo presente quali siano i suoi obblighi legali”. Inutile sottolineare che oggi, mentre le milizie continuano ad agire come schegge impazzite senza legarsi a un esercito nazionale agli ordini di uno stato unitario e sovrano, chiedere il rispetto di qualsiasi forma di stato di diritto sembri piuttosto utopico.

 

 

Dall’altra parte del Mediterraneo ci si chiede intanto cosa aspettarsi con la bella stagione alle porte e il mare calmo. Come ogni anno a partire da maggio-giugno le partenze tornano ad aumentare. Se nel 2020, complice lo scoppio della pandemia, il numero dei barconi che hanno percorso la rotta del Mediterraneo centrale è diminuito sensibilmente rispetto al 2019, i numeri di questo inizio di 2021 sono più alti. “Ma parliamo sempre di cifre lontanissime da quelle della crisi del 2014 – precisa Matteo Villa – Se allora si parlava di circa 180.000 arrivi all’anno, nel 2020 ci siamo attestati intorno alle 35.000 persone sbarcate. Diciamo che questa quota è superiore alla media pre-crisi del 2014, quando c’erano mediamente 20.000 sbarcati all’anno ma, va da sé, è lontana dai livelli emergenziali”.  

 

 La doppia sfida di Draghi: disinnescare la trappola della  “solidarietà volontaria” dell’Ue sull’accoglienza ed evitare che Salvini lo ricatti con la scusa dell’aumento degli sbarchi 

 

C’è un aspetto ulteriore che ha innescato quella che Villa definisce “mini surge”, cioè un piccolo aumento delle partenze. Si tratta della Tunisia: “Sicuramente la crisi politica ed economica, con il conseguente aumento della disoccupazione, è tra le cause principali della ripresa delle partenze dalle coste tunisine”. Secondo i dati del Viminale, sono già 1.239 i tunisini arrivati sulle nostre coste quest’anno, quasi tutti migranti economici, per lo più colpiti dal crollo subito dal settore turistico a causa della pandemia e ora in attesa di essere rimpatriati. Preoccupato dall’incremento degli arrivi sulle nostre coste e dal temporaneo blocco dei rimpatri dovuto alla crisi sanitaria, l’estate scorsa il governo presieduto da Giuseppe Conte annunciò di avere sottoscritto un accordo di cooperazione con la Tunisia. Il 17 agosto, con una delegazione nutrita composta dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, del commissario Ue agli Affari interni Ylva Johansson e da quello per il Vicinato, Oliver Varhelyi, da Tunisi si annunciò un’intesa raggiunta con il governo locale pari a circa 11 milioni di euro. Ad oggi, nessun dicastero ha mai rivelato i dettagli di quell’accordo. Anzi, i ministeri dell’Interno e degli Esteri hanno riferito all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che  “non è stato sottoscritto alcun accordo bilaterale” e “sono ancora in corso le necessarie valutazioni in merito a possibili iniziative da finanziare”. Michele di Bari, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Viminale, interpellato dal Foglio sulla sorte di questi accordi, spiega che il ministero ha dato il via ad alcuni progetti di cooperazione con la Tunisia, ma lascia intendere che si tratta di missioni che nulla hanno a che vedere con l’intesa annunciata lo scorso anno. “Con fondi nazionali il dipartimento ha selezionato e ammesso a finanziamento tre progetti di cooperazione in Tunisia, da poco avviati – dice di Bari – Si tratta soprattutto di interventi diretti all’inserimento nel mondo del lavoro di giovani, donne e potenziali migranti e volti all’accesso ai finanziamenti e allo sviluppo della micro-imprenditoria”. Delle sorti dell’accordo fra Italia e Tunisia non si è saputo più nulla.

  

Nel frattempo, da Lampedusa, il sindaco Martello mette in guardia: “Se lo scorso anno qui arrivavano soprattutto barche piccole partite dalla Tunisia, negli ultimi mesi sono ricominciate le partenze dalla Libia”. Differenze? “Le barche usate dai libici sono più grandi: possono portare anche più di 70 persone”. Se la maggior parte delle partenze dalla Libia, in questi primi mesi del 2021, è stata intercettata dalla Guardia costiera libica, restano i casi di tutti quei barconi che invece riescono a infilarsi tra le maglie dei loro controlli – che talvolta si allargano o si stringono a seconda dello stato delle relazioni diplomatiche fra il governo libico e l’Italia. I numeri li elenca Villa: “Quest’anno, al netto dei respingimenti compiuti dai libici (respingimenti, perché va ricordato sempre che la Libia non è un porto sicuro secondo l’Onu, ndr), le persone salvate finora sono state il 25 per cento di quelle partite, il 7 per cento è arrivato in Italia in autonomia. L’1,2 per cento è stato dato per disperso”. Nel primo trimestre 2021, a fronte di un totale di 6.997 migranti sbarcati sulle coste italiane, 4.197 sono stati quelli provenienti dalla Libia, ossia il 60 per cento del totale. “Per quanto riguarda le attività sar (search and rescue, ndr) svolte da navi ong, nel primo trimestre 2021 i salvati e sbarcati in Italia sono stati in lieve aumento (più 6,62 per cento) rispetto ai migranti sbarcati da ong nel medesimo periodo del 2020”, ci dice di Bari. A parità di numeri degli interventi di salvataggio da parte delle navi umanitarie, col passare degli anni anche le polemiche rimangono pressoché della stessa intensità. A riaccenderle di recente sono state le rivelazioni fatte da Domani sulle intercettazioni illegali compiute dalla procura di Trapani ai danni di giornalisti non indagati. Nel 2017, tutti gli intercettati si erano occupati in modo diverso di ricostruire gli accordi conclusi fra il governo italiano e alcune milizie libiche affinché smettessero di fare partire migranti verso l’Italia. Si parlò di 5 milioni di euro (secondo gli scoop di Associated Press, Monde e Corriere non si trattò solo di denaro contante, ma anche di non meglio definite “forniture” a beneficio delle milizie) versati al clan di Sabratha comandato da Ahmed Dabbashi, detto “Ammu” (lo zio). Un accordo mai reso pubblico che si iscriveva nel tentativo del governo allora guidato da Matteo Renzi – con Marco Minniti al Viminale – di diminuire il flusso degli arrivi sulle nostre coste. Il sistema innescò l’invidia del clan rivale di Zuwarah, che diede inizio a una faida con quello di Dabbashi. Finché, come ricostruito da un’inchiesta di Nello Scavo su Avvenire, l’11 maggio 2017 Abd al Rahman al Milad, alias “Bija”, capo della Guardia costiera libica della zona ovest e appartenente proprio al clan di Zuwarah, comparve all’improvviso in Sicilia, ospite addirittura dei funzionari italiani impegnati a spiegare alla delegazione libica come funzionava il nostro sistema di accoglienza. Tutto molto giusto, non fosse che Bija era già all’epoca un conclamato malfattore, accusato dall’Onu per crimini contro l’umanità per le violenze, le torture e gli omicidi nei confronti dei migranti. 

  

Nel caso della freelance Nancy Porsia, che per anni ha seguito le storie dei trafficanti di esseri umani in Libia, la procura di Trapani aveva persino autorizzato una sorta di pedinamento telematico: per sei mesi – rivela ancora Domani – i magistrati hanno tracciato gli spostamenti di una giornalista impegnata a fare semplicemente il suo lavoro. Nello Scavo, anche lui intercettato dai pm, ha denunciato come a essere presi di mira, oltre al segreto professionale dei giornalisti e la libertà di stampa, è stata anche la sicurezza delle fonti interpellate dai cronisti. Le indagini della procura di Trapani sono appena state chiuse dopo ben sei anni e si attende la richiesta di rinvio a giudizio di 21 persone per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Si tratta di personale della ong tedesca Jugend Rettet e della sua nave Iuventa, ma anche di altri membri di Save the Children e Medici senza frontiere, rispettivamente imbarcati sulla Prudence e Vox Hestia. Nell’agosto del 2017, un agente sotto copertura a bordo della Vos Hestia – Pietro Gallo, noto per avere passato le foto, oltre che ai servizi segreti, anche al segretario della Lega Matteo Salvini, che poi basò buona parte della sua successiva campagna elettorale proprio su quelle rivelazioni – ventilò un presunto patto criminale fra ong e trafficanti di esseri umani perché, durante un trasbordo di migranti su una nave umanitaria gli operatori dell’ong avrebbero restituito il barchino ai trafficanti. Non solo, in alcune foto scattate da un agente infiltrato sulla Vos Hestia e che fanno parte del materiale raccolto dalla procura di Trapani, si vede uno scafista picchiare un migrante, con vicino un operatore umanitario che non sembra opporre resistenza. Queste immagini e altre intercettazioni, secondo i pm, dimostrerebbero un’intesa fra trafficanti e ong. Finora, nessuna indagine contro le ong è mai sfociata in un processo e il cosiddetto “sistema” ipotizzato dal pioniere di tutti i sospetti giudiziari (finora infondati) contro le ong, il pm di Catania Carmelo Zuccaro, semplicemente si è sciolto come neve al sole. Stavolta però, accusano organizzazioni non governative e giornalisti, la strategia di delegittimazione delle ong ha superato il limite. Una prova ulteriore si trova se si guarda alla guerra contro le ong che è rimasta, seppur con modalità diverse, una costante attraverso i due governi Conte: “La repressione nei confronti delle ong è iniziata nel 2017 – dice Villa dell’Ispi, che ha contato i giorni in cui ogni nave umanitaria è finita sotto sequestro dalle autorità italiane – Nel 2020 con Lamorgese al Viminale si è arrivati al record di sette ong ferme contemporaneamente in porto per fermi amministrativi o cautelari. Un numero superiore all’èra Salvini, che invece creava crisi in mare, impedendo per settimane l’approdo”. D’altra parte, c’è una novità importante a proposito delle navi umanitarie e del loro presunto pull factor, l’incentivo alle partenze che, secondo Di Maio e Salvini, era costituito dalla presenza al largo della Libia di imbarcazioni pronte a compiere operazioni di salvataggio. Un incentivo per la verità inesistente, come dimostrato dalle statistiche delle partenze raccolte nel corso degli anni. Ora però il trend sembra cambiato: “Nei primi tre mesi di quest’anno abbiamo appurato che c’è stato circa il triplo delle partenze dei barconi dalle coste libiche mentre al largo era presente almeno una nave ong – spiega Villa – E’ ancora presto per dire se si tratti di una coincidenza o di un fenomeno consolidato e non sappiamo da cosa sarebbe causato. Le ipotesi sono diverse, è anche possibile che i trafficanti abbiano cominciato davvero a usare le piattaforme online che monitorano gli spostamenti delle navi in mare, decidendo di partire solo quando c’è qualcuno pronto a salvarli al largo. E’ ancora prematuro arrivare a conclusioni, ma dobbiamo annotare questa nuova tendenza”. 

 

  Tragica ironia, di recente i linguisti tedeschi hanno inserito il termine “returns sponsorhip” tra le Non words of the year 2020, una sorta di premio assegnato con irriverenza per le espressioni giudicate prive di significato

 

Sempre a proposito della delegittimazione di chi fa salvataggi in mare, anche il Codice di condotta delle ong, ideato da Minniti, è finito sul tavolo degli imputati: perché imporre un vademecum – tra l’altro privo di qualsiasi valore legislativo – se esiste già il diritto del mare che impone di salvare chi è in difficoltà? Semplicemente perché lo stato non sta più facendo salvataggi e ha ritirato le sue navi in porto. Cochetel, che in passato non si è tirato indietro nell’usare parole dirette anche contro l’integralismo umanitario, spiega al Foglio che il problema è proprio questa assenza di volontà da parte dei vari paesi di volersi assumere responsabilità nei salvataggi: “Le ong sono coinvolte in queste operazioni per via del vuoto lasciato dagli stati, ma non dovrebbe essere questo il loro ruolo. Lo fanno sulla base di elementari considerazioni di umanità e non dovrebbero essere penalizzate per questo”. Secondo l’inviato dell’Unhcr, “gli stati dell’Ue, ma anche quelli extra Ue, dovrebbero accordarsi su un sistema più organico che possa evitare situazioni come quelle che abbiamo visto anche in questi giorni, durante la settimana di Pasqua, con barconi carichi di migranti lasciati alla deriva, senza che nessuno fra Italia e Malta decidesse di intervenire”. Cochetel fa riferimento all’ultimo episodio di lassismo di Roma e La Valletta, costato la vita a oltre 100 persone abbandonate alla deriva per giorni e infine scomparse dai radar. “Criminalizzare le ong? Qui il punto è che i salvataggi oltre le acque territoriali delle 12 miglia non si fanno quasi più. Se lo stato decide che non li vuole fare, qualcuno dovrà pure controllare il Mediterraneo”, ci dice il sindaco di Lampedusa, Martello.
 

 

Mentre l’Europa, fra mille difficoltà e più lentamente del previsto, ha già avviato le campagne di vaccinazione, dall’altra parte del Mediterraneo la situazione sanitaria è drammatica. “L’accesso di migranti e rifugiati ai servizi di assistenza sanitaria in Libia e Tunisia è quasi impossibile – ci racconta Cochetel – Il coronavirus ha ucciso oltre il 50 per cento dei migranti e dei rifugiati contagiati. Molti sono stati cacciati dalle abitazioni in cui vivevano perché non riuscivano più a pagare l’affitto e ora dormono per strada senza alcuna cautela per evitare la propagazione del virus. Infine aumentano i casi di xenofobia da parte dei residenti libici nei confronti dei migranti sub sahariani, che sono considerati degli untori”. In Libia la settimana scorsa è stato consegnato un primo lotto di vaccini Sputnik e un altro di AstraZeneca tramite l’Unicef, ma con appena 150 mila dosi a disposizione, la strada per immunizzare oltre 6 milioni di libici, quasi 300 mila sfollati, e circa un milione fra migranti e rifugiati è ancora tutta da percorrere. Sono le organizzazioni internazionali e umanitarie a cercare di dare assistenza. Croce Rossa internazionale e Mezzaluna rossa distribuiscono kit di prima assistenza ai migranti e ai rifugiati. Fabrizio Anzolini, coordinatore regionale per le migrazioni della Croce Rossa Internazionale (Ifrc), ci spiega che si stanno creando dei cosiddetti Punti di servizio umanitario lungo l’intera rotta battuta dai migranti, dal deserto del Sahel fino alla costa libica per consegnare mascherine e kit igienici. Stessa cosa avviene nei centri di detenzione in cui la Mezzaluna rossa ha accesso. “Il sistema economico e sociale anche qui ha risentito molto delle conseguenze della pandemia – ci dice Anzolini – Nel frattempo vogliamo puntare sempre di più sulla sensibilizzazione dei migranti, avvertendoli dei rischi che potrebbero correre intraprendendo il viaggio verso l’Europa”. L’obiettivo è ambizioso: “Dobbiamo battere la propaganda e le false informazioni dei trafficanti, permettere alle persone che vogliono partire di prendere una scelta liberamente, senza costrizioni e con le dovute informazioni. Per farlo, dobbiamo anche metterli in guardia sui rischi della traversata, e informarli che una volta in Libia, se lo volessero, potrebbero avere la possibilità di essere aiutati a tornare nei loro paesi d’origine, tramite vie sicure”.

 

Accogliere i migranti al tempo del coronavirus ha richiesto uno sforzo ulteriore da parte dell’Italia. Garantire che i migranti non diventino veicolo del virus è stata la priorità al momento dello sbarco, almeno per evitare che l’accoppiata sovranista Salvini-Meloni ricamasse sopra altri argomenti da propaganda. Se l’allarme scandalistico de “l’immigrato clandestino ci contagia tutti” è durato l’arco di qualche titolo su alcuni giornali, d’altra parte non sono mancate le polemiche dal sud al nord Italia. In Sicilia sono finite sotto accusa le navi quarantena, traghetti affittati dallo stato allo scopo di ospitare i migranti appena sbarcati. “Le navi-quarantena attualmente operative sono cinque, mentre le strutture disponibili sul territorio, oltre agli hotspot e ai centri di prima accoglienza, sono circa 25 nell’ambito del territorio nazionale. Complessivamente, sulle navi quarantena sono transitati 17.842 migranti”, ci spiega il prefetto di Bari che è incaricato di coordinare l’intero iter di accoglienza. Ma a parte i costi esorbitanti – secondo delle verifiche fatte dall’agenzia Agi lo scorso anno, servono oltre 4 milioni di euro per circa 100 giorni di affitto di questi traghetti, molto di più rispetto alle spese gestionali delle strutture sulla terraferma – i problemi sono altri. Per l’Asgi si tratta di una pratica discriminatoria perché i migranti potrebbero ricevere assistenza sanitaria migliore a terra. Quando nel maggio dello scorso anno un tunisino si è gettato per disperazione da una di queste navi, l’accusa rivolta al governo è stata quella di mettere a dura prova la resistenza psico-fisica di chi è già reduce da una traversata del Mediterraneo a bordo di un barchino.

  

 Ma d’altra parte, sono state le stesse comunità locali, già messe in difficoltà dalle zone rosse, a spingere per questa soluzione. “Non ci sono alternative”, ci dice il sindaco di Lampedusa. “Dobbiamo assolutamente evitare qualsiasi contatto con i cittadini: una volta scesi a terra, i migrati sono tamponati e identificati”. Poi, ci dice Martello, dall’hotspot si attende il primo traghetto quarantena e si fanno salire a bordo. Anche l’Unhcr ha approvato questa soluzione: “L’Italia ha dimostrato durante la pandemia che è possibile garantire sicurezza pubblica e procedure d’asilo per chi cerca protezione internazionale”, ci dice Cochetel. 

 

 Il deputato  Di Muro ha presentato un’interrogazione per sapere chi tra Francia e Italia debba fare i tamponi ai migranti che transitano per Ventimiglia. “Siamo in trappola fra dpcm e trattati internazionali”, ci dice 

 

Ma risalendo l’Italia verso nord, arrivando fino a Ventimiglia, si scoprono realtà paradossali. Se anche i numeri dei migranti in transito fra Italia e Francia restano più o meno costanti e si attestano a poche centinaia, la pandemia rende tutto più complicato. Il deputato della Lega Flavio Di Muro ha presentato un’interrogazione parlamentare per sapere chi tra Francia e Italia debba fare i tamponi ai migranti che transitano per il valico di Ventimiglia, a Ponte San Luigi. “Noi qui abbiamo da una parte un dpcm che impone a chiunque voglia entrare in Italia, anche solo a un cittadino francese che voglia sconfinare per comprare un pacchetto di sigarette, di avere con sé un documento che attesti la negatività al Covid nelle ultime 48 ore”, ci spiega Di Muro. “Dall’altra c’è un accordo internazionale, quello di Chambéry siglato da Italia e Francia che regola le procedure di riammissione dei migranti dalla Francia all’Italia. Ora il punto è che questi migranti, che arrivano da Lampedusa o dalla rotta balcanica, sconfinano in Francia ma poi vengono ‘restituiti’ alla nostra polizia senza che abbiano fatto il tampone. E’ chiaro che si tratta di una situazione paradossale – continua Di Muro – perché mentre ai nostri esercenti a Ventimiglia viene a mancare la clientela francese, che è vitale per la nostra economia, e i cittadini sono chiamati a rispettare le regole imposte dalla zona rossa, dall’altra invece i migranti possono bivaccare in giro per la città indisturbati”. Dovrebbe essere l’Europa, conclude il deputato leghista, a regolare la faccenda: “L’assenza dell’Ue, che dovrebbe armonizzare le regole nelle zone di confine, è chiara. Aggiungerei pure quella del governo italiano, che viene da un anno di totale lassismo”.  

   

Il 23 settembre 2019, il ministro Lamorgese commentava con soddisfazione l’accordo della Valletta concluso con Francia, Malta, Germania e Commissione Ue. “Da oggi l’Italia non è più sola”, aveva assicurato il capo del Viminale, che prefigurava tempi ben diversi da quelli della precedente esperienza salviniana. Tuttavia, quell’accordo sulla ripartizione dei migranti salvati in mare tra i paesi aderenti, doveva essere il trampolino di un’intesa ben più ampia, che via via avrebbe dovuto coinvolgere tutti gli altri stati membri. Così non è stato e la diplomazia italiana si ritrova ancora oggi impantanata fra i meandri delle trattative europee per portare a termine una missione impossibile: riformare il regolamento di Dublino che scarica tutti gli oneri dell’accoglienza sui paesi d’arrivo dei richiedenti asilo. Con l’insediamento della nuova Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen e il nuovo annunciatissimo Migration Pact si nutrivano grandi aspettative. Aspettative che nel giro di pochi mesi sono state subito azzerate dalla dura realtà dipinta dalla stessa commissaria che aveva redatto la proposta di riforma, la svedese Ylva Johansson, che pronunciò tre parole quasi tombali: “Nessuno sarà soddisfatto”. Così è stato, e la bozza di riforma che doveva riscattare la solidarietà europea si è rivelata – incredibile ma vero – persino peggiore del sistema attuale. “La Commissione ha usato il termine eufemistico di ‘nuovo meccanismo di solidarietà’, che in realtà indica un allontanamento dai vecchi princìpi di giusta distribuzione degli oneri fra gli stati membri a proposito dei richiedenti asilo”, ci spiega Petra Bendel, professore di Scienze politiche all’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Norimberga e presidente dell’Expert Council on Integration and Migration. Prendiamo un esempio concreto per capire come funzionerebbe il nuovo Migration Pact, che al momento è ancora in una fase negoziale: ammettiamo di avere un barcone di migranti partiti dalla Tunisia. Fra loro ci sono richiedenti asilo, migranti economici, persino terroristi, e così via. Cosa succede una volta che il barcone arriva, ipotizziamo, a Lampedusa. Chi si assumerà l’onere di identificarli, accoglierli o rimpatriarli? “L’esempio è ben scelto, visto che il Migration Pact si propone di gestire proprio i cosiddetti ‘flussi misti dell’immigrazione’. Ebbene, la responsabilità per la loro identificazione ricadrà soprattutto sugli stati che si trovano ai confini esterni dell’Ue”, risponde Bendel. “Nel caso specifico, l’Italia dovrà procedere allo screening per appurare i rischi sanitari o di sicurezza. Poi dovrà inserire i nuovi arrivati nei rispettivi canali – asilo, rifiuto di ingresso, rimpatrio. I richiedenti asilo a loro volta finiranno in una di quattro possibili procedure; quella del ricollocamento, quella della ‘procedura d’asilo convenzionale’, che dovrebbe concludersi fra le 12 e le 20 settimane, quella cosiddetta fast track cioè la più rapida, oppure il ricollocamento in un altro paese per considerare la richiesta d’asilo”. Di fatto, la proposta normalizza le procedure di hotspot che sono già operative in Italia e Grecia e che erano applicate solo in situazioni di emergenza temporanea. “E’ per questo che i ricercatori hanno sollevato serie perplessità a proposito del monitoraggio dei diritti fondamentali per coloro che richiedono protezione”, dice la professoressa tedesca, che da poco ha pubblicato un paper proprio sullo stato dell’arte della riforma. Il nodo della faccenda sta nell’ipocrisia che si cela dietro alla “solidarietà flessibile”. “Non significa che ogni stato dovrà accogliere chi chiede protezione internazionale – chiarisce l’esperto – Piuttosto significa che ciascuno potrà scegliere altri strumenti di solidarietà. Per esempio, alcuni stati membri potranno contribuire occupandosi dei rimpatri nei paesi di origine, i cosiddetti returns sponsorship. Nel caso in cui non dovesse riuscirci, quello stato dovrà accogliere il migrante nel proprio paese”. Considerato che sono pochi i paesi europei che hanno concluso accordi con paesi terzi per il rimpatrio dei migranti, ovviamente la gran parte di loro, come per esempio quelli del gruppo di Visegrád, si è opposta a una soluzione simile, per paura poi di doversi tenere i richiedenti asilo. Tragica ironia, di recente i linguisti tedeschi hanno inserito il termine ‘returns sponsorhip’ tra le Non words of the year 2020, una sorta di premio assegnato con irriverenza per le espressioni che a loro avviso sono prive di qualsiasi significato.

  

“La risposta più efficace e duratura passa per una piena assunzione di responsabilità sul tema da parte delle istituzioni comunitarie ed europee”, ha detto Draghi durante il suo intervento in Senato con il quale chiedeva la fiducia lo scorso febbraio. Il nodo della faccenda, aveva dichiarato il premier in quell’occasione, è “la declinazione europea del principio di solidarietà”, che di fatto spacca in due l’Europa: da una parte il fronte dei paesi di Visegrád, che restano arroccati sull’utopica idea di una “fortezza europea”, dall’altra il blocco dell’Europa del sud, che però non riesce a imporre la linea dell’ormai esangue accordo di Malta. Il tanto sospirato cambio di passo di Draghi passa per due livelli diversi, uno nazionale e l’altro europeo. Riguardo al primo, il riferimento è al dualismo con Matteo Salvini e in generale con le forze sovraniste. “Penso che la linea Draghi sia in perfetta sintonia con la nostra esigenza di accogliere chi merita accoglienza, ma di considerare le frontiere italiane come frontiere europee”, aveva detto il leader della Lega con parole quasi sorprendenti. La “svolta europeista” ventilata da Salvini – più presunta e utilitarista che concreta e sincera – attende di essere messa alla prova dei fatti: dopo avere ostacolato la riforma del regolamento di Dublino negli anni scorsi, l’improvvisa normalizzazione del Carroccio resta ancora tutta da dimostrare. Uno fra Draghi e Salvini dovrà probabilmente cedere sulla linea da seguire sui migranti da qui in avanti. Sabato, parlando da Catania dove è imputato per sequestro aggravato di persona per il caso Gregoretti, il leader della Lega ha avvertito il premier: “Mi rifiuto di pensare a una estate di sbarchi con milioni di italiani in difficoltà economica, psicologica, sociale, sanitaria e migliaia di clandestini che continuano a sbarcare”. Per Draghi il compito più difficile sarà quello di farsi trovare pronto con una strategia sul fronte dell’immigrazione ed evitare così che, in vista dell’estate e della ripresa degli sbarchi, Salvini possa ridare vigore alla sua retorica sovranista ricattando il governo.  

 

C’è poi il livello europeo della discussione. Forte della sua competenza e della sua esperienza, il premier potrebbe realmente dare una svolta ai negoziati europei sul fronte del Migration Pact, che lui stesso non ha mancato di criticare nella sua versione attuale. Il cambio di passo è davvero auspicabile, ma dipenderà dalla volontà degli altri paesi più restii a liberarsi della minaccia sovranista. “L’immigrazione è profondamente intrecciata alle nostre politiche, all’economia, al commercio, all’educazione e al lavoro – spiegava Avramopoulos nella lettera da cui eravamo partiti all’inizio di questo lungo viaggio, dalla Libia fino a Bruxelles – Per questo, non può essere affrontata né come un problema da risolvere né come una sfida da affrontare. Invece è tempo di iniziare a pensare, parlare e agire sull’immigrazione nel lungo termine”. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.