un altro venerdì di ordinaria immobilità

Gli scioperi dei mezzi pubblici a Roma meglio dell'Ulisse di Joyce

Carmelo Caruso

L'Atac è la nostra Dublino, il conducente il nostro Leopold Bloom. Cronaca del primo sciopero di bus e tram con il virus e dopo la riapertura delle scuole, rigorosamente prima del fine settimana

Accade ogni venerdì. E non si può neppure chiamare sciopero. A Roma, neppure lo sciopero dei mezzi pubblici è preciso, puntuale. Che il tram, l'autobus non arrivi, e che la causa sia lo sciopero, lo intuisci, dal senegalese che alla fermata ti sorride e ti dice: “Bello, oggi no lavoro”. E pensi che ti stia chiedendo un aiuto, qualche spicciolo. E invece no. È lui che se la ride perché sa che sei tu, e non lui, che non arriverai in tempo.

  

Ogni venerdì, a Roma, un uomo si alza e sa che rischia il licenziamento per imprevista causa: “Perdonami, direttore, ma non sapevo dello sciopero”. Frase da non dire, mai. Non ti giustifica e lascia intendere che non ti documenti, che sei svogliato. “Anche perché lo sanno tutti che a Roma ogni venerdì c'è sciopero”. E però, se alla fermata Ravizza, tram otto, linea Gianincolense, siamo in oltre venti ad attendere il tram, significa che ci sono venti fedeli che credono nei mezzi pubblici. E infatti, a dirla tutta, ogni giorno un passeggero, che prova a prendere un mezzo pubblico a Roma, vorrebbe scioperare e non per i sedili luridi (ormai anche le giacche hanno sviluppato gli anticorpi al Covid). Lo sciopero, alla fine, è solo la prova che si avvicina il fine settimana. C'è qualcosa di più e che rischia di trasformare un uomo mite in un possibile stragista. È il tram che vedi passare (L'uomo che guardava passare i tram, non i treni, caro Simenon) e che non si ferma perché va al “deposito”.

 

Foto LaPresse
   

Non è vero che a Roma non ci siano abbastanza mezzi. Roma è una città deposito. Ieri, che era una giornata di ordinaria circolazione (ancora fermata Ravizza-Gianincolense), ne abbiamo contati in un'ora ben tre e tutti diretti verso il deposito che in pratica è il vero monumento di Roma, più del Colosseo, del Pantheon, dell'Ara Pacis. Il deposito non è altro che la buca istituzionalizzata. Facciamo tuttavia le persone serie e diamo i numeri. In pratica, l'equazione è 5-3: se cinque tram circolano direzione Piazza Venezia, tre scompaiono in una zona che non è né rossa e né grigia. È il non indagato. Ma poco importa, siamo uomini di mondo. Ci serve salire sul tram e dunque non temiamo più il distanziamento sociale che sui mezzi pubblici di Roma è saltato non appena Giuseppe Conte ci ha liberato dal lockdown. Ci si siede ormai uno accanto all'altro, più di prima meglio di prima. Gli adesivi “qui è vietato sedersi” sono sbiaditi al punto che sembrano i graffiti di una caverna. L'obliteratrice a volte si prende qualche pausa: non si dica che Roma non sia una città socialista. E se siete arrivati fin qui avrete capito che a Roma un passeggero neppure si indigna. A Milano, diamine, si protesta. Eccome. A Roma invece in un modo o nell'altro si arriva in ufficio e il capo eserciterà misericordia. Ogni viaggio su un mezzo pubblico romano può infatti fare nascere uno James Joyce, lo sciopero restituire creatività, sprigionare energie nuove. È l'Atac la nostra Dublino, è il conducente il nostro Leopold Bloom.

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