Diplomazia americana

Il romanzo di formazione di Tony Blinken

La vita a Parigi, l'autografo di John Lennon, la fuga da casa per andare al concerto dei Rolling Stones, il jet set seduto sul divano. Storia del consigliere strettissimo che Joe Biden ha nominato come suo segretario di stato

Paola Peduzzi

Antony Blinken, detto Tony, è tutto quel che ci viene in mente quando diciamo: establishment americano di politica estera. Lavora con il governo dai tempi di Bill Clinton, è stato al dipartimento di stato con Hillary, ha fondato una società di consulenza per affari internazionali con la “darling” dei neconservatori Michèle Flournoy, ha consigliato Barack Obama e soprattutto Joe Biden quando era vicepresidente, era anche lui inquadrato in una delle foto  iconiche della presidenza Obama, quella della situation room nella notte in cui è stato ucciso Osama bin Laden, nel 2011

Antony Blinken, detto Tony, è tutto quel che ci viene in mente quando diciamo: establishment americano di politica estera. Lavora con il governo dai tempi di Bill Clinton, è stato al dipartimento di stato con Hillary, ha fondato una società di consulenza per affari internazionali con la “darling” dei neconservatori Michèle Flournoy (che è nella rosa dei nomi possibili per guidare il Pentagono nell’Amministrazione Biden), ha consigliato Barack Obama e soprattutto Joe Biden quando era vicepresidente e poi anche durante la sua campagna elettorale vittoriosa, era anche lui inquadrato in una delle foto  iconiche della presidenza Obama, quella della situation room nella notte in cui è stato ucciso Osama bin Laden, nel 2011.

Ora Blinken è stato scelto dal presidente eletto per guidare il dipartimento di stato, cioè per portare avanti quella che in coro  Blinken e Biden definiscono la “missione di riparazione”, aggiustare la reputazione dell’America dopo il trambusto trumpiano – la riparazione è un po’ il leit motiv della carriera di Blinken negli anni Duemila: anche con Obama c’era questo  slancio riparatore dopo la “guerra non necessaria” in Iraq. A confermare questa storia di establishment puro – non è una cosa brutta: è una bolla, certo, ma vuol dire anche competenza ed esperienza – c’è  il matrimonio con  Evan Ryan, pure lei dipendente dell’Amministrazione Obama, e due figli di cui uno nato da poco, al punto che Samantha Power, ex ambasciatrice all’Onu dell’Amministrazione Obama e in lizza per diverse mansioni nel governo che verrà, ha festeggiato la nomina di Blinken ricordando il figlioletto e celebrando i padri che lavorano (questa dev’essere una cosa che capiscono soltanto le coppie di potere).

 


 

Blinken rappresenta la continuità con il passato, così come le altre nomine che sta facendo Biden: l’ex segretario di stato John Kerry sarà lo zar per il cambiamento climatico; Jake Sullivan, braccio destro di Hillary Clinton, sarà consigliere alla Sicurezza nazionale; poi c’è Avril Haines, prima donna a dirigere l’Intelligence nazionale, Alejandro Mayorkas, primo segretario ispanico alla guida della Sicurezza interna, Linda Thomas-Greenfield, diplomatica di lungo corso che sarà ambasciatrice americana all’Onu. Mentre già si dice che c’è tantissimo Obama in queste scelte, Blinken oltre al passato ha qualche  sfumatura tutta sua. Pare che fosse tra quelli che, quando ci fu da decidere che cosa fare in Libia durante la guerra contro Gheddafi, erano un pochino più falchi di Obama e dello stesso Biden. Così come si racconta – lo fece Jason Harowitz in un articolo del 2013 sul Washington Post – che Blinken non fosse d’accordo con la decisione di Obama di chiedere l’autorizzazione al Congresso per attaccare la Siria dopo che il rais Bashar el Assad aveva utilizzato armi chimiche contro il suo stesso popolo. Ma come quella generazione di esperti e funzionari che si è fatta le ossa nella guerra nei Balcani, anche Blinken è più un mediatore e negoziatore che un ideologo. Condivide con la Power l’istinto interventista umanitario, pensa che gli Stati Uniti abbiano “la responsabilità di proteggere” i  popoli dalle atrocità dei dittatori, ma il pragmatismo viene prima di tutto, obiettivi chiari e raggiungibili senza troppi idealismi.

 

In realtà la storia di Blinken è zeppa di idealismo e di romanticismo,  anche se forse sono rimasti confinati nelle vite che Blinken non ha vissuto. Cresciuto tra artisti e politici di fama internazionale – ha studiato e vissuto a Parigi quando sua madre ha divorziato da suo padre e ha sposato Samuel Pisar, avvocato, scrittore e diplomatico sopravvissuto ad Auschwitz  – a vent’anni Tony voleva fare il regista. Tutti a quell’età vogliono fare il regista, ha detto in seguito suo padre, Donald Blinken, filantropo ed esperto d’arte  amico intimo di Rothko e di Robert Rauschenberg, ma l’ispirazione artistica è rimasta, e Tony a un certo punto voleva fare lo scrittore o almeno il giornalista. Fece uno stage a New Republic durante gli anni Ottanta scrivendo (criticando, anzi) l’Amministrazione Reagan e secondo i suoi amici è stato lì che ha capito che più che raccontarla, la politica, avrebbe voluto farla.

Così è cominciata la vita che sarebbe poi diventata la sua, che lo ha portato fino al dipartimento di stato con molti contatti soprattutto in Europa, anche se le contaminazioni di quei primi venti/venticinque anni di jet set sono rimasti – assieme all’autografo di John Lennon cui Blinken tiene tantissimo: glielo procurò la madre dopo una giornata passata con Yoko Ono a leggere poesie. Idealismo e romanticismo sono rimasti nelle serate a suonare la chitarra, un po’ jazz e un po’ Beatles, assieme all’ex portavoce di Obama Jay Carney, nei ricordi del primo concerto a Parigi dei Rolling Stones (uscì dalla finestra per non farsi vedere dai suoi), negli aneddoti che lascia cadere così, eleganti e precisi, su tutti i personaggi famosi della sua adolescenza con cui passava cene e serate. Gli è rimasta una bella voce, è molto fotogenico e questo sua delicatezza gli hanno permesso di sopravvivere a tutti i super ego che gli sono passati intorno. Ora che il dipartimento di stato è nelle sue mani, forse Blinken potrà mettere a frutto la sua caratteristica più chiacchierata: riesce a dire le cose più tremende senza apparire né offensivo né cattivo. Il talento del diplomatico.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi