(foto LaPresse)

Per i trumpiani le dimensioni contano, tranne per il prezzo del cappotto della rivoluzione

Paola Peduzzi

Nulla è stato rilevante come la dimensione della folla, e poiché accordarsi era impossibile, a un certo punto il calcolo non riguardava più soltanto le persone che c’erano lì ma anche quelle che hanno guardato l’inaugurazione in tv

Le dimensioni contano per Donald Trump, l’avevamo già capito quando, in tempi che ormai sembrano lontanissimi, perdemmo giornate a ironizzare sulla piccolezza delle mani dell’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca. Marco Rubio aveva lanciato l’offensiva delle mani piccole di Trump, poi ripresa ovunque con analisi scientifiche, statistiche (secondo le quali Trump ha le mani più piccole della media, ma chissà sulla base di quale dato falso si fonda questa constatazione), letterarie e gossippare, mentre il candidato repubblicano replicava: non capite niente, ho mani belle, grandi, affusolate, e vi menerò tutti, elettoralmente parlando s’intende. Era già iniziata la battaglia degli “alternative facts” – ultima, straordinaria definizione di come il mondo trumpiano vede la realtà, la sua realtà – ma non lo sapevamo, non ce ne accorgevamo, non ci interessavamo. Le dimensioni contano, e Trump ce l’ha ricordato ancora in questi giorni di inizio burrascoso della sua presidenza, non facendo altro che discutere delle dimensioni della folla presente alla sua inaugurazione. “Non c’è mai stato pubblico più grande a un’inaugurazione. Punto”, ha detto il portavoce Sean Spicer, nel suo terrificante esordio sul podio della sala stampa della Casa Bianca (si stanno portando via tutto, questi trumpiani, del nostro amore per certe inquadrature, per certe istituzioni, per certi rituali). Da quel momento in poi nulla è stato rilevante come la dimensione della folla, e poiché accordarsi era impossibile, a un certo punto il calcolo non riguardava più soltanto le persone che c’erano lì, infreddolite e con i sacchetti in testa, ma anche quelle che hanno guardato l’inaugurazione in tv, e così la rincorsa dei numeri è continuata, s’è ampliata, non si capiva più nemmeno di che cosa si stesse parlando – perché poi Washington si è riempita davvero, con la marcia delle donne e i berretti rosa ovunque, una marcia enorme, ma non ditelo, non citate numeri, non fate paragoni che poi senò si ricomincia.

La soldatessa Kellyanne Conway

La lotta sulle dimensioni è l’ultimo atto del conflitto più grande, quello tra Trump e i media che, stando agli insiders, sarebbe voluto e diretto da Steve Bannon, il consigliere in chief, l’architetto del trumpismo della seconda fase, quella vincente, quella in cui tutti gli scontri sono diventati combustibile per la costruzione della leadership. “Bannon vuole una grande lotta tra Trump e i media mainstream – ha scritto Brian Stelter della Cnn – Vuole che il suo mondo non si fidi mai dei media”. A gestire la guerra, Bannon ha messo la soldatessa più determinata e al tempo stesso serafica del mondo, quella Kellyanne Conway che non dice mai di no quando c’è da andare in tv a difendere (l’indifendibile) capo, molti tentennano e oppongono obiezioni ma lei no, prende e va e dice qualsiasi cosa con il suo sorriso indefesso. E’ lei che ha inventato questa nuova definizione degli “alternative facts”, che per il resto del mondo sono falsità e che invece per lei e per i trumpiani sono la realtà che nessuno vuole vedere – ed è a questo punto che solitamente arriva la morale: Trump ha vinto, fatevene una ragione (alla sua prima conferenza stampa, Trump alla terza domanda nel merito non s’è tenuto è ha detto: “Look, I won”, che è la sua arma finale, inappellabile, definitiva). Kellyanne è la gatekeeper del presidente, e non teme nulla, né i fatti veri né quelli alternativi, continua a ripetere che Trump sarà uno “choc” e intanto è già diventata la pasionaria del gruppo con il suo cappotto “rivoluzionario” all’inaugurazione, i colori americani, lo stile da soldatino di stagno, e neanche una piega quando s’è saputo che il cappottino costa tremilaseicento dollari e fa parte della linea che è stata ispirata dalla casa reale inglese, altro che America, altro che Trump.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi