Raccontando il fratellino Bernie, Larry Sanders è costretto a dire che il sogno americano è una figata

Paola Peduzzi

    Larry Sanders ricorda chiaramente la prima volta che ha pensato che il suo fratellino Bernie sarebbe diventato un leader politico. Era il 1959, a Brooklyn, New York, Bernie si candidò rappresentante di istituto, tirò fuori una carica inaspettata, “un certo senso di leadership” che risultava sorprendente, perché “a casa era molto tranquillo – ha raccontato Larry al Sunday Times – e non si autopromuoveva mai per nulla: ma lì ho capito”. Oggi Bernie Sanders è l’idolo di ragazzi e ragazze americani, della sinistra Occupy Wall Street, dell’anti estabishment dei liberal americani, tutti ripetono orgogliosi “we feel the Bern”, e quando urlano ai comizi quell’“Yuge” liberatorio diventato simbolo dell’onda Sanders par di vedere Hillary Clinton con il sangue ghiacciato nelle vene. Larry Sanders, ottantenne con gli occhiali spessi, il fare da nonno che vive da sessant’anni nel Regno Unito (ci andò per amore, non si è mai più mosso anche se ha cambiato moglie), ha insegnato Pubblica amministrazione a Oxford e si è candidato perdendo con i Verdi, sorride di fronte allo stupore di tutti: lui sa quanto può essere irresistibile suo fratello. Dice che non è un caso che l’ascesa di suo fratello coincida con quella di Jeremy Corbyn nel Labour inglese, i millennial sono frustrati dalla politica moderna (Larry lasciò il Labour nel 2001, perché Tony Blair “era di destra”), vogliono che il cambiamento arrivi da “persone che dicono da sempre le stesse cose”, indefessi difensori dell’uguaglianza con i capelli bianchi e una coerenza socialista senza ombre.

     

    Così in questi giorni di grande entusiasmo in cui tutto è diventato possibile, persino prenotarsi un volo per la convention democratica a Filadelfia, perché “voglio essere di fianco a Bernie quando sarà nominato vincitore delle primarie”, Larry è diventato suo malgrado il cantore del sogno americano dei Sanders. E’ la Pastorale Americana di una famiglia di origine polacca, il padre Eli, un pescatore, arrivato negli Stati Uniti dopo la Prima guerra mondiale senza soldi, senza parlare la lingua, con la Grande Depressione in arrivo e il mito poi di Franklin Delano Roosevelt, “che dimostrò a tutta la nostra famiglia che lo stato può fare davvero grandi cose”. Larry e Bernie sono cresciuti in strada, “lo sport era l’unica cosa importante, il punchball, lo stickball, il baseball, il softball, lo stoopball, tutto valeva per strada, quella era la nostra vita, e ogni cosa era autogestita, dovevi avere fiducia in te stesso per averla vinta”. Bernie era popolare perché giocava nella squadra di basket della scuola, e quella “era la fonte primaria di uno status nel quartiere. I genitori o i soldi non erano utili quanto essere un atleta”, ricorda Larry, e questo senso di superiorità se l’è portato dietro, “gli ha dato un agio naturale”, che ora serve tantissimo. Larry dice di non sapere se tanta popolarità fosse utile anche con le donne – “non me l’ha mai detto, probabilmente no” – ma oggi l’agio naturale, come dice lui, fa saltare le ragazzine di entusiasmo e di passione politica come soltanto Obama otto anni fa.

     

    Larry si commuove pensando ai suoi genitori e ai suoi zii, dice che come in molte famiglie ebree scappate dall’Europa non si parlava molto di Olocausto, ma sapevano che il fratello preferito del padre era stato ucciso dai nazisti, che altri due zii erano scomparsi e non si è mai più saputo nulla, “realizzammo sulla nostra pelle che la politica non è un gioco”. Nel 2013 i due fratelli sono andati a fare un viaggio nel villaggio di loro padre, Larry ricorda soprattutto le lotte tra l’ambasciata americana e i polacchi che volevano gestire la visita dell’“importante senatore”, ma poi si commuove pensando a che cosa potrebbero dire oggi i suoi, se fossero ancora vivi. Così anche lui, socialista appassionato che vuole piangere di gioia per il suo fratellino, è costretto a dire che “il sogno americano è spesso un mito”, ma non per tutti, non per lui, non per i Sanders.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi