Il presidente che ha cambiato il mondo ubriacandosi e quello che sente sempre odore di spazzatura

Paola Peduzzi

    Thomas Jefferson mangiava otto portate a ogni cena, anche quando era da solo alla Casa Bianca: spendeva quel che oggi sarebbero mille dollari al giorno in cibo, e collezionava bottiglie di vino, e molte se le beveva. Il padre fondatore degli Stati Uniti, George Washington, sorseggiava almeno tre bicchieri di Madeira al pomeriggio, e spesso li mischiava con il laudanum, un oppiaceo famoso al tempo, che lo aiutava a non sentire il mal di denti che lo ha sempre tormentato. JFK è stato l’unico presidente degli Stati Uniti – per quanto ne sappiamo – a inalare popper alle feste che organizzava alla Casa Bianca, lo faceva provare anche ai suoi invitati, molte ragazze, comprese quelle due stagiste che lui chiamava Fiddle e Faddle: beveva anche, e fumava erba, ma si dice che lo facesse solo perché aveva dolori alla schiena fortissimi. Richard Nixon beveva spesso whiskey, ma non gli piaceva, anzi il sapore lo nauseava, ma così era sicuro che non avrebbe esagerato – i suoi amici lo chiamavano con affetto “our drunk”, il nostro ubriacone, ma non è che bevesse così tanto, il problema era che metteva nel bicchiere o il Seconal, che è un sedativo, o il Dilantin, uno psicofarmaco, e così spesso si addormentava, altre volte urlava, per lo più non era mai in sé.

     

    Queste e molte altre meraviglie sono contenute nel libro “Party like a President”, scritto da Brian Abrams e illustrato da John Mathias: è come leggere un giornale scandalistico lungo 300 pagine, sfizioso e pettegolo, con rivisitazioni a fumetti divertenti (come quella che ritrae George H. W. Bush mentre vomita e sviene a una cena in Giappone: esiste il video, fu girato dall’Abc, si vede Barbara che corre ad aiutarlo, lui che prima sta male, poi cade in terra, in Giappone c’è anche un termine, “bush-suru”, che indica quando uno si sente male e collassa), frutto di un lavoro di ricerca durato anni – la parola “true” è dappertutto, sono storie vere, ripetono gli autori, per contrastare la percezione dominante: no, dài, non può essere andata così. Ma anche se fosse tutto falso, le lettere che Woodrow Wilson firmava con “Tiger”, la superiorità di cacciatore di femmine di nuovo confermata di JFK e l’appetito sessuale di Warren Harding (non saprei dire che faccia avesse Harding né quando è stato esattamente presidente, ma ora so che chiamava il suo pisello per nome: “Jerry”) sono già conficcati nel mio immaginario. Da ora sarà sempre più difficile – lo è già – distinguere quel che ho letto in un libro-tabloid da quel che è stato raccontato nei retroscena seriosi dei giornalisti politici e da quel che vedo alla televisione. Da anni guardo soltanto serie tv in cui ci sono presidenti americani impegnati in ogni genere di attività, da ammazzare con le proprie mani antichi alleati ad abbattere aerei, a rubare le elezioni, a uscire nel bel mezzo della notte per andare a trovare l’amante a casa, a dichiarare guerre soltanto per ritrovare l’amore della vita, a tramare ogni genere di nefandezza nei confronti dei migliori amici, per non parlare degli assassinii commissionati e del tempo perduto a consolarsi ubriacandosi.

     

    La realtà è sempre meglio della fiction, si dice, e per questo aspetto con trepidazione la pubblicazione di un libro che arriverà dopo Pasqua, “The Residence: Inside the Private World of the White House”, scritto da Kate Andersen Brower, in cui la vita alla Casa Bianca è raccontata da camerieri, giardinieri, cuochi, operai, insomma tutte quelle persone che vorresti fossero sorde, cieche e mute (ma efficientissime): ci sono Nixon che si presenta in cucina la mattina in cui si è dimesso, Johnson ossessionato dall’idraulico, i Clinton che si lanciavano qualsiasi cosa avessero a tiro quando litigavano e altre amenità del genere. Non tutto farà bene alla mia capacità poi di discernere il finto dal vero, il rilevante dall’irrilevante soprattutto, ma tutto, anche l’aneddoto falso che passa alla storia per incuria, sarà meglio dell’inchiesta pubblicata in questi giorni da Oliver Knox su Yahoo, che racconta quanto sia deprimente la vita dei presidenti – in particolare quella di Barack Obama – quando sono in viaggio in giro per il mondo. Ho sempre immaginato stanze gloriose e spazi trionfali e invece scopro che, per ragioni di sicurezza, spesso le “presidential suite” non ospitano affatto il presidente, il quale invece deve stare in stanze con poche finestre e pochi accessi, e che ordinare la colazione in camera è un capriccio quasi mai assecondabile. Nulla è più deprimente del sapere che “non importa quanto un hotel è bello, il presidente accede spesso dalle entrate di servizio, quelle vicine alla cucina”, ad accoglierti c’è solo l’odore della spazzatura.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi