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L'intervista

Il mio cinema ora libero dalle ideologie. Chiacchierata con Marco Bellocchio

Francesca D'Aloja

Ha 83 anni ma è il più giovane regista in attività. Dai “Pugni in tasca” a “Rapito”, il lungo cammino di un autore che oggi, affascinato dalle storie della Storia,   privilegia la libertà creativa

Dopo aver assistito alla proiezione del film di Marco Bellocchio, Rapito, ho sentito il bisogno di camminare senza meta, lasciandomi cullare da quella sospensione che talvolta ci accompagna all’uscita della sala buia e ci induce a riflettere su ciò che si è appena visto. Un passo dopo l’altro, rimettevo in fila le immagini nella mia mente, lasciando emergere le emozioni ricevute. Una prevaleva sulle altre, tanto più forte poiché rara e dunque preziosissima: la commozione. La vicenda del piccolo Edgardo Mortara, il bambino ebreo che nel 1858 fu strappato alla famiglia perché segretamente battezzato dalla domestica, è certamente una storia commovente, ma ciò che mi emozionava non era soltanto il racconto di un’ingiustizia inflitta a un bambino e alla sua famiglia in nome di un principio assoluto (“Io ti rapisco perché Dio lo vuole”), o l’indiscutibile bellezza del film, quanto chi quel racconto ha deciso di restituire, e cioè Marco Bellocchio. A commuovermi era un sentimento di gratitudine nei confronti di un regista che anno dopo anno, decennio dopo decennio, seguita a sorprendere, a spiazzare, a imporsi su tutti per la freschezza del suo tocco e la perizia (sempre più raffinata) del suo mestiere. Se poi si pensa alla sua età, tutto questo risulta ancor più straordinario: a ottantatré anni, Bellocchio è indubitabilmente il più giovane regista in attività. Ho la fortuna di conoscerlo da diversi anni, e insieme all’affetto che provo per lui, cresce l’ammirazione per tutto ciò che ha fatto, che fa e che farà.

Quel che leggerete è il frutto di una chiacchierata informale, come ho avuto l’occasione di fare altre volte, sentendomi, invariabilmente, molto più vecchia di lui.

Guardando i tuoi ultimi film si ha l’impressione che tu abbia conquistato una totale libertà, non soltanto espressiva, quella l’hai sempre avuta, ma anche nel voler esplorare generi apparentemente lontani dalla tua filmografia, penso al “Traditore” dove abbondano scene di azione sorprendenti. Con “I pugni in tasca”, il tuo primo film, hai detto che ti sentivi libero perché non avevi posizioni da difendere. La libertà di cui godi oggi da dove viene? Dall’età? Dal distacco dell’impegno?

“In questi ultimi anni mi sento meno vincolato a discorsi ideologici contenutistici, ora mi interessa soprattutto la Storia, sono affascinato dalle storie della Storia. Parto da un contesto strutturalmente realistico per poi lasciare spazio al mio “spirito libero” durante le riprese o in fase di montaggio. Privilegio dunque la libertà creativa a quella ideologica di un tempo, legata alla Nouvelle Vague, al cinema surrealista, a Jean Vigo… Pensa che anni fa mi proposero di girare Il nome della rosa, ma io rifiutai per questioni ideologiche legate al successo del libro, ecco, oggi probabilmente accetterei la proposta…”

Possiamo dire che ti sei liberato da te stesso?

“Sì, mi sono liberato di me! E di tutta una serie di incrostazioni ideologiche, di principi verso i quali sentivo un obbligo di fedeltà, penso anche alla grande avventura ‘Fagioliana’ che aveva indirizzato la mia vita in un’altra direzione.”

Questo però non ti ha fatto perdere il “Bellocchio touch”, riconoscibile anche nei film apparentemente meno bellocchiani…

“Succede quando emergono delle connessioni con la mia vita, che magari non riconosco subito, ma sono presenti, come in quest’ultimo film. Ad esempio il tema del battesimo, centrale nella mia storia familiare. Inevitabile il riferimento a mia madre, che fece battezzare tre volte mio fratello gemello (nato tre ore dopo il regista e per questo considerato in pericolo di morte n.d.r). Leggendo il memoriale di Edgardo Mortara, sono stato rapito, è il caso di dirlo, da questa storia, che in qualche maniera mi riguardava intimamente.”

In Rapito Bellocchio affronta nuovamente uno dei topos della sua filmografia: la Religione. È una sua costante quella di tornare su argomenti già affrontati, come se ogni volta volesse aggiungere un tassello in più, facendosi ulteriori domande e cercando nuove risposte, come nel magnifico Esterno notte, con il quale ha messo in scena ancora una volta il caso Moro, raccontato però da una prospettiva opposta al precedente Buongiorno notte. 

“Sono una persona curiosa, anche come lettore vado sempre in cerca di qualcosa con l’ingenuità quasi infantile di lasciarmi stupire da una storia.”

Uno spirito infantile che lo segue anche sul set. Qualche anno fa andai a trovarlo a Bobbio, durante le riprese di Sangue del mio sangue. Si girava in esterno, di notte. Faceva freddo, pioveva, erano tutti stanchi morti tranne lui. Riparato sotto un telo di plastica seguiva la scena davanti a un piccolo monitor, con uno sguardo vigile e al tempo stesso divertito, come un ragazzo appena uscito dal centro sperimentale. Che cosa significa per te fare film? Una fuga dalla realtà, un bisogno di astrarsi? Un rifugio?

“Un rifugio? No, non direi… C’è sempre una partenza un po’ affaticata piena di dubbi e di paure, e questo avveniva anche quando ero giovane, in cui mi dico ‘Oddio ma che palle…’ oppure ‘Che sto a fare qui?’, ma una volta entrato nel gioco, c’è un risveglio… Soprattutto durante le riprese, che considero il “momento della verità”, quando tutto si concretizza, spesso prendendo direzioni diverse rispetto alla sceneggiatura, e lì mi diverto sempre. Evidentemente si accende qualcosa, e finché è così ne vale la pena. Ci sono tanti esempi di celebri registi che verso la fine lavoravano per passare il tempo ma si vedeva che nei loro film c’era poca luce…”

Tu hai cominciato come pittore, hai scritto poesie, sembravi privilegiare espressioni artistiche solitarie. Poi è arrivato il cinema…

“Sono stato un ragazzo molto timido e introverso, il cinema mi ha messo nella vita. Dover confrontarti con gli altri, sfidare chi è resistente, e gli attori spesso lo sono, può rivelarsi, non dico terapeutico, ma sicuramente aiuta ad aprirsi.”

Io credo che per fare il regista oltre al talento sia necessaria l’indole del condottiero, dirigere significa anche comandare.

“Con l’età sono diventato più diretto pur conservando la mia riservatezza. Non sono di quei registi che urlano sul set, tanto per dire. Certo, ogni tanto mi incazzo, ma non umilio mai le persone con cui lavoro. Se devo dare un suggerimento a un attore, anche se ha una sola battuta, lo faccio sussurrando, con gentilezza. Dev’essere un retaggio della mia formazione cattolica… Comunque questo mio stare un po’ in disparte ha prodotto anche un certo fascino…” (ride)

Rimpiangi di non aver fatto l’attore? Al Centro Sperimentale ti eri iscritto a recitazione…

“Forse uno psichiatra troverebbe la ragione per cui ho preferito passare dietro la macchina da presa… La verità è che sono narcisista ma non esibizionista… e poi c’è stato anche un problema psicologico legato alla mia voce: quando recitavo sentivo che non andava bene e questo mi ha bloccato…”

Avresti potuto fare come Gassman che lavorò moltissimo per modificarla la sua voce, inizialmente diversa rispetto a quella che tutti conoscono.

“Probabilmente sentivo che non faceva per me, avrei potuto fare il protagonista de I pugni in tasca, avevo l’età giusta, venticinque anni, ma mi sono limitato ad apparire di spalle, dando la mia voce a un prete…”

Una scelta alquanto psicanalitica direi… (lui ride di nuovo). Credi di aver fatto tutti i film che avresti desiderato o ce n’è uno che non sei riuscito a realizzare e che rimpiangi di non aver fatto?

“Penso di aver fatto quello che volevo… Naturalmente ci sono sempre progetti che per una ragione o per l’altra non vanno in porto. Ad esempio il film sulla vita di Marie Curie, sul quale avevo cominciato a lavorare e che ho abbandonato in corso d’opera quando ho saputo che una regista stava terminando le riprese di un film sullo stesso tema. O quando Harvey Keitel mi propose un adattamento del Mercante di Venezia…”

Harvey Keitel pensò a te per un film shakespeariano?

“Sì, ci eravamo già incontrati per un altro film mai fatto, anni addietro, ma anche quella volta il progetto non si era concretizzato, principalmente per problemi produttivi, poi è arrivato il Mercante con Al Pacino e questo ha tagliato la testa al toro. Peccato perché trovo molto interessante sconfinare in un mondo che non conosci, attraverso una lingua originale utilizzata però in maniera naturale e non pretestuosa.”

In passato hai adattato Čechov sia al cinema che in teatro, e poi Kleist, con “Il Principe di Homburg”…

“Sì, nel caso di Kleist abbiamo dovuto rendere in prosa il testo originale scritto in versi. Ma in quel caso più del linguaggio mi attraeva il protagonista. In Čechov invece ho riconosciuto una certa familiarità sia nella descrizione degli interni che in quel chiacchierare fra i personaggi, con echi quasi regionali…”

Si ha l’impressione che tu sia costantemente al lavoro, sempre alla ricerca di qualcosa, anche quando sei impegnato su un progetto con la mente sei già proiettato verso il successivo

“Mi è naturale. Poi ovviamente può colpire il fatto che abbia ottantatre anni… Ho avuto periodi di crisi in cui mi sono ritirato, soprattutto dopo il ‘68, quando cercavo il senso di ciò che facevo, o anche più avanti, quando avevo bisogno di sentirmi altrove, separato rispetto ad altri modi di fare cinema…Nonostante questo sono avanzate risorse che hanno allungato la mia vita artistica, e ora attingo a quelle.”

Benedette risorse che ci permettono di godere ancora del suo lavoro. È così triste quando i registi che amiamo escono di scena, o perdono l’ispirazione, lasciandoci orfani di ciò che è stato e mai più sarà. Quando ti definisco il più giovane regista in attività, aggiungerei anche il più moderno, penso a “Esterno notte”, davvero stupefacente sia nella costruzione dei personaggi che nel rovesciamento del punto di vista. 

“Una modernità però discreta, non avanguardistica. Non c’è mai in me il desiderio di stupire, non penso mai ‘Adesso vi faccio vedere io…!’. Io appartengo a una prima linea di cineasti, e purtroppo siamo rimasti sempre in meno. Soprattutto dopo la morte di Bernardo (Bertolucci n.d.r) al quale mi hanno sempre abbinato, sono rimasto più solo, ma io guardo con molto interesse il lavoro dei registi più giovani. Sta avvenendo qualcosa di rivoluzionario e di catastrofico nel mondo, che sta cambiando e cambierà inevitabilmente il modo di fare il cinema.”

“Esterno notte” è stata la tua prima prova di regia di una serie. Che esperienza è stata, che differenze ci sono rispetto alla realizzazione di un film?

“Intanto il tempo a disposizione. Ma ho affrontato questo lavoro tenendo sempre conto della mia esperienza cinematografica. Bisogna sapersi adattare alle condizioni difendendo però la propria immagine, la propria cifra stilistica. L’idea della bella inquadratura alla Angelopoulos non mi condiziona più, ora cerco di essere piuttosto pratico senza perdere troppo tempo nelle prove, riducendo l’uso del carrello ad esempio. Ho sicuramente abbondato nei primi piani, sono stato più “addosso” agli attori e questo ha sveltito il lavoro.”

E lo ha reso più moderno, appunto. Sono importanti per te i premi?

“Certamente fa piacere un riconoscimento del proprio lavoro, ma in fin dei conti non sono così importanti per me. Il premio è continuare a lavorare.”

Anche questa è libertà

“La mia libertà, oggi, è non sentirmi più costretto a puntare il dito.”

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