Aki Kaurismaki (Pascal Le Segretain / Getty Images)

Cannes 2023

Le possibili Palme a Cannes: Kaurismäki merita, Todd Haynes è il più ruffiano

Mariarosa Mancuso

Si avvicinano i verdetti definitivi: il regista malinconico di “Foglie cadute” davanti a tutti, mentre i soliti noti hanno un posto a tavola anche se i film non promettono granché. Intanto si accolgono “les italiens”, da Bellocchio a Moretti

Il presidente della giuria Ruben Östlund due Palme d’oro le ha già vinte, a distanza ravvicinata e prima di compiere 50 anni. Nel 2017 per “The Square” e l’anno scorso per “Triangle of Sadness” (certi registi hanno pianto d’invidia nella loro cameretta). Si trova a dover giudicare un concorso con molti soliti noti che hanno un posto a tavola anche se il film non promette granché – dicono i giornali francesi: “Hanno qui i loro portatovaglioli”. Addirittura, con registi che una palma l’hanno già vinta. Potrebbero raddoppiare. O addirittura triplicare, come Ken Loach che ne ha già avute due.

 

Per ora in cima alla griglia di Screen International (inventata 40 anni fa, è ancora la prima cosa che guardiamo ogni mattina) c’è il finlandese Aki Kaurismäki. Un regista malinconico sempre – non è un difetto, basta saperlo fare – che in “Foglie cadute” sprofonda nella tristezza. Due solitari, disoccupati. Lei ha portato a casa dal supermercato un prodotto scaduto, invece di gettarlo. Lui beve e nasconde la bottiglia nell’armadietto delle valvole. Si incontrano al karaoke, tra lamentosi tanghi finlandesi, e all’occasione una cover locale di “Mambo italiano”. Vanno al cinema a vedere “I morti non muoiono” di Jim Jarmusch. Lei gli dà il numero, lui lo perde. Fotografati alla maniera di Kaurismäki, immobili sulla panchina oppure a casa con la radio accesa che trasmette le notizie sull’Ucraina (sono confinanti, e della guerra si è ricordata nella serata inaugurale Catherine Deneuve, mentre Ruben Östlund volava altissimo). Dopo tanti premi che parevano di consolazione, Kaurismäki meriterebbe. Ma poi al cinema chi va a vederlo? Per un po’ l’hanno venduto in Italia come seguace del neorealismo – idea quanto mai balzana. Il declino del genere ora almeno ci risparmia il luogo comune.

 

Per qualche giorno era stato in cima alla lista “The Zone of Interest”, il film che Jonathan Glazer ha girato adattando “La zona d’interesse” di Martin Amis. Subito scavalcato dal film più ruffiano del concorso – e dispiace per Todd Haynes, che avevamo tanto amato quando girava “Velvet Goldmine” e imitava Douglas Sirk in “Lontano dal paradiso”. Natalie Portman va a fare le ricerche per un film, interrogando Julianne Moore che molti anni prima aveva sedotto un tredicenne, ed era stata messa in prigione con il figlio della colpa – che ora sta finendo il college. A dispetto della differenza di età – il “May December” del titolo – sono rimasti insieme e hanno una bella famiglia tradizionale. Specchi, sguardi e rossetti scambiati hanno scatenato gli applausi.

 

Gli ultimi giorni del festival accolgono “les italiens”, presentati in ordine alfabetico: Marco Bellocchio con “Rapito”, Nanni Moretti con “Il sol dell’avvenire” (già uscito nelle sale), Alice Rohrwacher con “Chimera”. Marco Bellocchio racconta di aver scritto una lettera a Papa Bergoglio per invitarlo a vedere il suo film: “Potrebbe essere una serata piacevole tra amici”. Da trascorrere osservando i gendarmi che nella Bologna del 1838, ancora parte dello Stato pontificio, rapiscono alla famiglia che abita nel ghetto ebraico il piccolo Edgardo Mortara. Una serva credendolo in punto di morte lo aveva battezzato di nascosto. Dopo anni se n’era ricordata, denunciando il bambino cattolico che cresceva felice tra gli infedeli. Portato a Roma da Papa Pio IX, di nuovo battezzato (ma se il battesimo non si può togliere, perché ribattezzare?), il ragazzino non verrà mai restituito alla famiglia. Né, secondo il film, smaniava per abbandonare la religione a cui lo avevano con la forza convertito. Munito di boccetta d’acqua santa, cercherà a tradimento di battezzare la madre che stava morendo.