Nanni Moretti ne "Il sol dell'avvenire"

Mezzo e mezzo

Le due facce di Nanni Moretti nel “Sol dell'avvenire”

Matteo Marchesini

L'ultimo film del regista romano è la summa della sua carriera: mescola le grandi intuizioni degli anni di Apicella con il superficiale perbenismo di “Tre piani”. Peccato

Si sprecano, in queste settimane, le ironie sul dibattito ipertrofico innescato dall’ultimo film di Nanni Moretti, che è diventato famoso anche per la battuta “Il dibattito no!”, ma che non vede l’ora di suscitarlo. Sui social o a cena, i membri del ceto medio riflessivo e i loro eredi hanno tutti prodotto una recensione. Si tratta di un commento “diffuso”, nel senso in cui lo si dice dell’azionariato. Ma “Il sol dell’avvenire” ci dà una summa morettiana, e quindi è giusto che anche la discussione in proposito somigli a un riepilogo critico sull’intera opera del regista. In questo film, Moretti mostra come era fatto il suo cinema proverbiale, quello prodotto tra fine anni ’70 e fine ’80: un po’ replicandolo in un centone di autocitazioni, un po’ reinventandolo, e un po’ distanziandolo con l’effetto nostalgia. Forse ribattezzare “Il sol dell’avvenire” “Sogni di bronzo” sarebbe ingeneroso, eppure non così sbagliato: e proprio sul Foglio, con le sue rapide stoccate, lo ha lasciato capire la Mancuso. Ma più che di un “Otto e mezzo” sbiadito, si tratta di un “mezzo e mezzo”. Provo a spiegarmi.

 

A volte, quando è legata a un nodo stretto di vocazione e ossessione, la fede smuove davvero le montagne. Moretti è stato subito così convinto di sé da contagiare il suo pubblico, per cui è divenuto precocemente un piccolo mito; ed essendosi imposto come autore-personaggio al di là, o meglio al di qua, di ciò che combina in concreto, ha trasformato i suoi enormi limiti in griffe. Spesso, guardandolo muoversi, mi tornano in mente due versi di Sandro Penna: “L’amore di se stessi non è forse un sogno / vissuto ad occhi aperti per le strade?”. Solo che a Penna bastava la solitudine anonima nella folla; mentre Moretti vuole che l’amore di sé stesso diventi quello di tutti. E se non di tutti, certo ha ottenuto le passioni di molti, coinvolgendoli nel suo sogno come un bambino che costringe i famigliari a partecipare ai suoi giochi. Ma non è questa, in fondo, la definizione di “regista”?

 

Non a caso, tra le scene migliori del “Sol dell’avvenire” ci sono quelle di “regia della vita”, cioè quelle dove il protagonista suggerisce le battute a una coppia “reale” di fidanzati. Più in generale, il “mezzo” film accettabile ripesca Apicella, seppure sotto altro nome, ossia è girato dal primo Moretti; mentre il “mezzo” film sbagliato prosegue il discorso perbenista dei romanzi sceneggiati, di cui “Tre piani” rappresenta l’esito più disastroso. Il fatto è che i modi con cui Moretti si è imposto non gli permettono di passare dagli sketch a una trama in senso vasto sentimentale: senza il suo Io autentico, che è appunto il perentorio Apicella, e senza la struttura a brevi quadri che esige, il cinema morettiano si sfascia. Non appena pretende d’indagare i rapporti nella loro durata, anziché alludervi con una segnaletica tra fumettistica e brechtiana, risulta arbitrario: come qui, ad esempio, dove evoca la crisi con la Buy.

 

Mi si ribatterà che nel “Sol dell’avvenire” prevale appunto il vecchio, cioè giovane, Moretti degli sketch. Ed è così, malgrado il compromesso con la sua seconda stagione; solo che il bel ritmo d’antan è chiamato ad animare un contenuto deprimente. Le invenzioni fiacche contano su uno spettatore incline a sopravvalutarle perché vi avverte l’eco apicelliano dei film leggendari; ma a chi non si presta all’equivoco, rivelano impietosamente l’angustia della visione morettiana del mondo. E non c’è mise en abîme, non c’è gioco di scatole cinesi, non c’è oscillazione tra il serio e il comico che possano redimere questa prospettiva da cenacolo romanesco, questi personaggi che sanno già di finire sui più patinati media italiani. A coloro che, in nome dell’autofiction, invitano a non confondere il protagonista-cineasta con Nanni, e i vari strati del film con la realtà, bisogna rispondere con brutalità morettiana: purtroppo, ahimè, Moretti che parla con Augias è proprio Moretti che parla con Augias, e l’idea macchiettistico-patetica del Pci che attrae il suo alter ego gli appartiene.

 

Né per risollevare il film basta l’inserto ucronico da “Buongiorno, notte” in sedicesimo: il cinema è mitomania, certo, ma in altro senso; e dev’essere una mitomania fantasiosa, come ha maliziosamente ricordato Giuliano Ferrara. Moretti potrebbe abbandonare Apicella senza danni solo se accettasse di vedere e giudicare l’angustia del suo mondo. Il che implicherebbe anche vedere e giudicare la violenza pseudointellettuale su cui si regge, una violenza diversa ma non meno colpevole di quella dei registi esaltati dal sangue. Anche su questo piano, le scene di satira sulla retorica dello splatter e su Netflix sono abbastanza superficiali. Eppure siamo così imprigionati nelle convenzioni narrative di prodotti industriali intercambiabili, che perfino i piccoli guizzi idiosincratici di Nanni ci comunicano un senso di libertà. Questo, però, non dice qualcosa sul valore del “Sol dell’avvenire”, ma su quello assai dubbio dei film, delle serie, dei libri e magari dei rapporti di cui spesso è fatta la nostra vita.

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