Cinema e politica

"Le Br non erano quelle di Bellocchio". In Rai con Rita Dalla Chiesa a vedere il film sul padre

Carmelo Caruso

"I terroristi non erano eroi romantici, non esiste la bellezza dell'assassinio. Aiutati da intellettuali, sono stati mitizzati". Parla la figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Che liberazione poter dire “Bellocchio che boiata” e ronfare finalmente di fronte ai suoi zombi, i brigatisti strafatti di “Stato padrone”, “Lotta di classe in Urss” che, dice Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto, “letteratura e cinema hanno mitizzato. Non esiste mai la bellezza dell’assassinio”. A Bellocchio abbiamo pagato in questi anni la psicanalisi? “Ma guardi che il sangue di Aldo Moro era vero, il sequestro del magistrato Sossi era vero, la gambizzazione di Indro Montanelli era vera, il piombo delle loro pistole Skorpion era piombo e non era di gommapiuma. Erano spietati, crudeli e malvagi”. Le chiedo in Rai, a Viale Mazzini, nella sala degli Arazzi, durante la conferenza stampa di presentazione del film “Il nostro generale”, quattro serate su Raiuno il 9 e il 10 gennaio e successivamente il 16 e il 17 (“vi prego chiamateli film, non serie tv” dice Sergio Castellitto, il “generale”) se abbia visto l’ultimo affresco del grande maestro de “I pugni in tasca”. E lei: “Ho visto dei frammenti ma ho visto Buongiorno Notte”. E cosa ne pensa? Sta per allargare le braccia quando viene fermata da tre ragazzi che si presentano come i suoi figli: “Ovviamente nella serie”.

 

Nel film, chiamateli film altrimenti Castellitto vi sgrida, Rita è l’attrice ligure Camilla Semino Favro. Simona Dalla Chiesa (è lei la figlia costretta a sposarsi in caserma per ragioni di sicurezza. “Ma pure io mi sono sposata in chiesa a Palermo” ricorderà dopo la vera Rita) è Cecilia Bertozzi. Il sociologo Nando Dalla Chiesa, che è collegato dalla sua Milano, è invece Luigi Imola. Era dunque questa la pellicola, prodotta dalla Stand by me di Simona Ercolani, che la Rai ha rimandato per par condicio, l’azienda dove a un etto di Carlo Casalegno ne deve corrispondere uno di Mario Moretti. Doveva andare in onda il 3 settembre ma venne sospesa (e sarebbe questo un magnifico film da girare) da zelanti funzionari a cui non sembrava vero suggerire: “Amministratore, al comma uno, del paragrafo tre, si dispone …”.

 

Rita Dalla Chiesa decise infatti di candidarsi con Forza Italia e non si capisce che beneficio elettorale avrebbe avuto. Sarebbe stata eletta a prescindere. Tutte le casalinghe d’Italia la conoscono e ci sono vie dedicate a suo padre in ogni paese. Era pubblicità? “Ho lavorato per più di vent’anni a Mediaset. Ho fatto televisione. Quando l’hanno rimandata mi sono sentita quasi colpevole. Ho pensato che era solo causa mia se quell’omaggio a mio padre, che cadeva a quarant’anni dalla morte, era saltato. E’ stato doloroso”. E invece sotto il Cavallo della Rai, per una volta si sorride. Il vigilantes rivela che la donna che tutti cercano è Teresa Saponangelo, la madre de “La Mano di Dio” di  Sorrentino, ma oggi solo Dora Dalla Chiesa, la prima moglie del generale. Il “bello” è Antonio Folletto. I rosari di “Esterno Notte” sono forse finiti a San Pietro dove se ne farà un buon uso.


E’ quindi possibile superare la sbornia di Lacan, smaltire i canti sacri, dimenticare i crocifissi che da almeno vent’anni ci ammorbano la mente e ci rovinano il sonno nei film dei “maestri” (sempre notte) dove i brigatisti sono ragazzi che sparavano per malinconia. Moro viene ucciso da Kossiga con la Kappa e lo stato (altro che deep state) una botola di farabutti con i democristiani che in segreto facevano orge.

 

Racconta Rita Dalla Chiesa che quando le hanno parlato di un film su suo padre, ancora uno, abbia istintivamente risposto ‘no’. E’ stata lei a chiedere di raccontare il nucleo antiterrorismo assemblato dal papà. Ci sono tanti generale Dalla Chiesa. Quello della lotta al banditismo, quello dell’anti terrorismo e infine l’ultimo dei “cento giorni a Palermo”, quello dell’intervista con Giorgio Bocca. E’ stato cancellato un pezzo importante,  rosso, che questo film restaura. L’attrice Camilla, che è Rita e che ha girato “Diaz” con Daniele Vicari, cambia ruolo e domanda: “Tu lo conoscevi il Dalla Chiesa contro le Br?”.

 

Dice che pure loro lo hanno scoperto insieme agli sceneggiatori Monica Zappelli e Peppe Fiore. Il regista del film è Lucio Pellegrini che, per fortuna, non è il maestro dell’intimismo, ma un piemontese che ha divorato tutto il cinema americano degli anni ’70. Paragona l’Italia di quegli anni al Sudamerica dei Narcos e i brigatisti a macchine robotizzate.

 

In cortile si coccola i suoi “infiltrati”, le talpe che Dalla Chiesa mandò nelle fabbriche garantendo: “Voi prendete le decisioni, io mi prendo la responsabilità”. Scopriamo così il “Trucido”, Andrea Di Maria con i suo Ray Ban gialli, “il tedesco”, un agente che lascerà il nucleo perché assunto da Giovanni Agnelli. Si sono divertiti a girarlo e si capisce quando Castellitto, uno che ha alle spalle “L’ora di religione” (un Bellocchio è per sempre) dice di “averne nostalgia. E quando si ha nostalgia di un film vale a dire che è un buon film”.

 

Rita Dalla Chiesa ricorda la sera di Milano quando il padre, passeggiando in Galleria, pronunciò la famosa frase “Milano è libera”. C’era davvero la guerra? “C’era complicità. Intellettuali, scrittori ammiccavano e dicevano che chi veniva ammazzato in fondo se l’era cercata. I brigatisti sono stati aiutati a fuggire. Le loro fughe diventano romantiche e la latitanza veniva chiamata esilio” risponde Rita Dalla Chiesa. Se ne vanno via tutti, attori, fotografi, senza quell’aria disperata, alla Bellocchio, ma con quella dei veri carbonari. Uno di loro: “La Rivoluzione l’abbiamo fatta noi con questo film”.

 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio