Il set di "Un posto al sole", nel 2022 (Giuseppe D’anna)

Fra cinema e serie tv

Napoli technicolor: così cresce la nostra nuova Hollywood

Michele Masneri

Tutto pieno, tutto sold out, solo posti in piedi: e la tv ha avuto un ruolo importantissimo nel rilancio della nostra amata capitale borbonica. Da "Un posto al sole" a "Gomorra", un sommario dei successi partenopei

Struffoli, babà, pastiera, pizza con cornicione alto? Oppure ci guardiamo una bella serie? Napoli ormai è una mania, è un orgoglio nazionale, è uno stato dell’anima. Bastava salire su un treno nei giorni dell’epifania per imbattersi in emozionate famigliole che non vedevano l’ora di sbarcare tra San Gregorio Armeno e piazza Plebiscito e lì nutrirsi di miti, leggende, culture, monacielli, Maradona, Ferrante fever. E tanti tanti carboidrati.

 

Tutto pieno, tutto sold out, solo posti in piedi: e la tv ha avuto un ruolo importantissimo nel rilancio della nostra amata capitale borbonica. Basta andare alla leggendaria sede Rai di Napoli: e lì, a Fuorigrotta, accanto allo stadio Maradona, tra alte cancellate come di una ambasciata americana a Kabul, e trecce d’aglio beneauguranti esposte tra gli studi, al trucco ti può capitare d’avere accanto Natalie Guetta, sorella del celebre dj e sugli schermi italiani per sempre sacrestana di Don Matteo. Oppure ti possono sfrecciare accanto, tra le gigantografie di Renzo Arbore e Totò, gli attori di “Un posto al sole”, lì dove tutto cominciò, nel casamento di Posillipo dove, su un’idea di Giovanni Minoli e di (sic) Letizia Moratti presidente della Rai che voleva “restituire ai territori”, e nello specifico al territorio campano, presero un format australiano e ne tirarono fuori la più longeva serie televisiva italiana, anzi napoletana. 

 

“Un posto al sole”, “Upas” per gli affezionati, resiste a tutto e a tutti, è una certezza più della presidenza della Repubblica (il palazzo dove girano gli esterni è accanto a villa Rosebery, dépendance napoletana del Quirinale, peraltro). Durante il lockdown si è fermato, sì, ma ha raccontato pure quello, con lo spinoff “Un po’ sto a casa”, realizzato in isolamento, dove ogni personaggio si misurava con le piccole questioni della pandemia quotidiana: il delivery  a domicilio, la chiusura dei parrucchieri, i no vax – il perfido dottor Ferri della serie rifiutava di mettere la mascherina (“è sempre stato un uomo freddo e distaccato; proprio adesso, che gli costa mantenere un metro di distanza sociale?”, chiedeva Raffaele il portiere).
 

Nella sede Rai ti sfrecciano accanto gli attori di “Un posto al sole”, lì dove tutto cominciò, da un’idea di Giovanni Minoli e (sic) Letizia Moratti

 

Con la tv, Napoli e la Campania hanno trovato finalmente la loro industria, altro che quella pesante o quella automobilistica o quella delle partecipazioni statali. “Upas” suscitò i complimenti anche di Umberto Agnelli: “La Fiat ha costruito a Pomigliano d’Arco la più moderna fabbrica di auto che esista al mondo, ma il modello di sviluppo per il sud è il tuo, non il nostro”, disse il fratello dell’Avvocato a Gianni Minoli. “E dove la trovava la Rai una macchina da soldi che dopo 24 anni tutte le sere sfiora ancora il 10 per cento di ascolti in prime time?”. 

 

Poi venne “Gomorra”, il simmetrico di “Un posto al Sole”, laddove il primo è la vecchia Rai, e il secondo la piattaforma, l’algoritmo neorealista. “A Napoli esiste un prima e un dopo ‘Gomorra’”, scrive Peppe Fiore sul numero della rivista monografica Passenger dedicata a Napoli. “Gomorra ha individuato una narrazione tipicamente napoletana senza mai essere oleografica, con una ricerca dei luoghi di Napoli che sono realmente internazionali. Ha mostrato a tutti che Napoli è una delle città più contemporanee del mondo” (Fortunato Cerlino, attore e scrittore). 

 

“Gomorra” non ha portato solo Napoli fuori dalla cartolina, dal mare-sole-mandolino, dai “neapolitan flag”, le lenzuola stese che tanto piacevano agli americani nel Dopoguerra; ma è stata anche la più grande scuola di formazione per maestranze mai vista. “Arrivavano i capireparto forti da Roma che prendevano gente del posto. Chi ha iniziato la prima stagione di ‘Gomorra’ come manovale oggi è secondo aiuto elettricista”.  “Oggi Napoli non è semplicemente una città cinematografica, a Napoli ormai la città e il cinema sono due vasi comunicanti”, scrive Fiore. “Per farsi un’idea delle dimensioni: negli ultimi cinque anni sono stati girati circa mille titoli, tra film, serie tv e spot televisivi”, un numero monstre che fa di Napoli il primo set d’Italia. “A partire dal 2017, abbiamo finanziato 281 opere tra lungometraggi, documentari, cortometraggi e serie. Ottanta tra premi, festival, rassegne e progetti di educazione all’immagine. Sono state finanziate circa trenta sale all’anno”, scrive Maurizio Gemma, della Film Commission regione Campania.

 

“Gomorra” non ha portato solo la città fuori dalla cartolina, ma è stata anche la più grande scuola di formazione per maestranze mai vista

 

Gli studi Rai tv napoletani sono tornati in gran spolvero. Si producono, girano, studiano programmi come: “Ti lascio una canzone”, “Attenti a quei due - La sfida”, “Per un pugno di libri”, “Me lo dicono tutti!”, “Non sparate sul pianista”, “Italia Coast2Coast”, “Made in Sud”, “I grandi della musica”, “Reazione a catena”, “Alle falde del Kilimangiaro”, “Torto o ragione?” “Il verdetto finale”, “Fatti unici”, “Sbandati”, “Music Quiz”, “Zero e lode”, “Stasera tutto è possibile” e “Bar Stella” con Stefano De Martino, omaggione a “Avanti tutta” del nume tutelare Renzo Arbore, e ancora il programma molto “Match” di Arbasino “Dilemmi”, di Gianrico Carofiglio, che riprende a febbraio. 

 

E se Hollywood nacque a Hollywood per la luce losangelina, che avrà mai da farsi invidiare il sole di Posillipo? Così se l’Italia ha un tasso di delitti peggio di Caracas sparso tra i borghi più belli d’Italia, dove commissari sono chiamati a risolverli (dalla vicequestore Lolita Lobosco a Bari, al distretto dei preti detective in Umbria, al classico giallo siciliano di Camilleri), Napoli si è ritagliata un unicum come set ma anche come luogo di produzione. “Ci sono più attori a Napoli che a Hollywood”, ha scritto qualche tempo fa Repubblica in una vasta indagine di ricostruzione di un boom anche industriale: case di produzioni, attori, sceneggiatori, addetti alle luci, sarti, truccatori, e chi più ne ha più ne metta. 

 

Parallela cresce la voglia di fare un giro in città. E’ tutto un “ci vediamo a Capodichino”, tutto un sognare di mollare Roma e soprattutto Milano e prendersi casa “in goppa” a Posillipo, tutto uno sfrecciare in tangenziale tra chi scende per una “ospitata” e chi cerca di prenotare da Mimì alla Ferrovia oppure all’Europeo a piazza Borsa (bonus: la parentela con casa Sorrentino, da cui le leggendarie polpette di Daniela D’Antonio). E’ cominciato tutto col Covid, quando è sorta nel paese e soprattutto al nord la voglia irrefrenabile di uscire di casa ed esplorare luoghi vicini ma lontani, quando da Milano i più chatwiniani hanno detto: non potendo prendere l’aereo per New York e Tokyo, perché non prendere il treno per Roma, o addirittura spingersi giù fino a Napoli? Non potendo essere nomadi, digitali o analogici, ma volendo assaporare un po’ di south working, superando preconcetti atavici, cliché, pensieri magici. La città che nei più sovranisti lombardi e veneti suscitava scippi e male di vivere e lasciare a casa gli ori, oggi ispira gioia, allegria, coolness. Napoli è italiana! Napoli è l’Italia!

 

Nel frattempo, giù serie: da febbraio torna anche “Mare fuori 3”, sei puntate dirette da Ivan Silvestrini per Rai Fiction e Picomedia, con le storie dentro un carcere minorile. E poi “L’arte della felicità”, docu-serie in sei episodi coprodotta da Mad Entertainment e Rai Documentari, andata in onda in seconda serata su Rai 3 alla ricerca delle emozioni  (Amore, Rabbia, Orgoglio, Felicità, Paura, Tristezza). Con l’obiettivo di raccontare “come stanno gli italiani” a due anni dall’inizio della pandemia e con la guerra in Ucraina che ancora incombe sull’Europa interrogando Umberto Galimberti, Mario Martone, Paolo Mieli e Pierluigi Battista, Maurizio De Giovanni, Sandro Veronesi, Emanuele Trevi, e soprattutto con vasto uso delle Teche Rai. E’ prodotto dalla zarina delle produzioni napoletane, Maria Carolina Terzi, che con la sua Mad Entertainment insieme a Luciano Stella è partita con la “Gatta cenerentola” versione cartoon di Alessandro Rak e oggi è anche sul grande schermo con “Nostalgia” di Martone, con Pierfrancesco Favino e Tommaso Ragno; che in questi giorni spopola in Francia. Ha esordito il 4 gennaio nelle sale francesi e ha già raccolto oltre 52 mila presenze nei suoi primi giorni di programmazione. La Napoli favinesca è già seconda in classifica in Francia, e da lì arriveranno altri indotti, altri turismi, per grand tour stendhaliani, “À Naples, à Naples!”. La stessa casa di produzione ha creato anche “Napoli Magica”, film diretto e interpretato da Marco D’Amore, il Ciro Di Marzio di “Gomorra”, che qui fa un documentario su Napoli e le sue mitologie – il cimitero delle Fontanelle, Castel dell’Ovo, la cappella del Cristo Velato, le Catacombe di San Gaudioso, le anime pezzentelle, Pulcinella e il fondamentale munaciello, il vero nuovo  testimonial della new wave napoletana, il Pulcinella dell’epoca Netflix. Creatura svelata ai più dal sorrentiniano “E’ stata la mano di Dio”, il film che ha definitivamente consacrato la nuova epoca d’oro della Hollywood sul Vesuvio. 

 

La Napoli favinesca di “Nostalgia” è già seconda in classifica in Francia, e da lì arriveranno altri indotti, grand tour stendhaliani

 

A Napoli è stato ambientato poi un gran successo dei tempi del Covid, “Vivi e lascia vivere”, diretto da Pappi Corsicato, storia di una cinquantenne (interpretata da Elena Sofia Ricci) che viene mollata dal marito e si reinventa una vita con una attività di ristorazione “street sartù”, mentre il marito abbandona lei e la famiglia per aprire un chiringuito in Spagna (sembra la storia del premier Meloni).  E poi ancora “Il commissario Ricciardi 2”, che vede il ritorno del personaggio creato da Maurizio De Giovanni e interpretato da Lino Guanciale. Nella Napoli degli anni 30 ecco l’“eroe triste” con il trench, un Chandler partenopeo. E poi naturalmente c’è “La vita bugiarda degli adulti”, nuovo manufatto Netflix tratto da Elena Ferrante, sei episodi con Valeria Golino che fa la zia cattivissima e Alessandro Preziosi professore piddino in tweed su Fiat Croma. E poi “Gomorra 5”, e poi “Storia di chi fugge e di chi resta”, e “Vincenzo Malinconico, Avvocato di insuccesso”; la serie tratta dai romanzi di Diego De Silva è ambientata però a Salerno, e del resto ormai Napoli è troppo stretta per contenere tutte queste pellicole e queste storie e gli appetiti di un paese che vuole sempre più Napoli, in tutte le sale e in tutte le salse. 


Così Napoli si allarga e si allunga, anzi si scontorna, per dirla alla Elena Ferrante. Tutti ne vogliono un pezzo, e uno dei risultati di questa nouvelle vague è la visione di “altre” Napoli, parti della città che non si erano mai viste. Addio San Gregorio Armeno e panni stesi dei rioni. Che entri il Centro direzionale, specie di Porta Nuova realizzata da Kenzo Tange vent’anni prima di Milano, un quartiere interamente di grattacieli come nelle downtown americane, tutto vetri e specchi, poco lontano dalla stazione Garibaldi. Lì Renzo Piano realizza anche il grattacielo Olivetti, e la torre Telecom è stata per vent’anni l’edificio più alto d’Italia coi suoi 129 metri, battendo persino il Pirellone (insieme con la torre Enel sono dette “le torri gemelle di Napoli”). Il Centro direzionale è protagonista della nuova Napoli in technicolor. Lì sono ambientate la fiction meloniana di Pappi Corsicato e anche le scene finali di “Certi bambini” sempre di Diego De Silva, così come la seguitissima “Mina Settembre”,  “dramedy” sentimentale che ha per protagonista un’assistente sociale alla continua ricerca di una soluzione ai problemi degli altri e che prova a rimettere in piedi anche la propria vita. Protagonista Serena Rossi, già indimenticata Carmen di “Un posto al sole”, che rappresenta il nuovo stardom napoletano globale (ha doppiato infatti la principessa Anna in “Frozen” e “Frozen 2”. Insieme a Serena Autieri, altra faccia della nuova Napoli che piace). 

 

Si allarga e si allunga, anzi si scontorna, per dirla alla Elena Ferrante. Tutti ne vogliono un pezzo, ed ecco la visione di “altre” Napoli

 

Il Centro direzionale si intravede anche nella “Vita bugiarda degli adulti”, appena lanciata da Netflix. E lì interni in legno, ricche librerie, pezzi pure di design, e papà che parlano a bassa voce e guidano rispettando il codice della strada. Ma già “E’ stata la mano di Dio” raccontava ed esplorava le palazzine della borghesia con seconde case e crisi borghesi come in altre capitali. Insomma è il momento della middle class napoletana. La città improvvisamente non è più abitata solo dal vecchio principe spiantato nel palazzo cadente insieme alla gente semplice tanto di buon cuore. Vai con la commedia borghese, dunque. Certo, il rischio è che nei prossimi vent’anni al posto della coppia di intellettuali in crisi con attico e 230 mq di terrazzo a livello nella splendida cornice di Testaccio o Monteverde Vecchio saremo subissati di coppie di intellettuali in crisi con attico e 230 mq di terrazzo a livello: ma nella splendida cornice del Vomero.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).