Foto di Gian Mattia D'Alberto, via LaPresse 

venezia 2022

I film sugli artisti non funzionano mai. L'ultimo di Gianni Amelio lo conferma

Mariarosa Mancuso

L'opera del regista incentrata sul poeta e drammaturgo Aldo Braibanti dovrebbe chiedersi a chi è rivolta. Le intenzioni sono lodevoli, ma trasudano impegno civile

Scrive Screen International – fidatevi, è un’autorità e si basa sui dati Anec, Associazione nazionale esercenti cinema – che gli spettatori nelle sale italiane scenderanno quest’anno del 55 per cento rispetto al 2019 pre-pandemia. In cifre: 45 milioni invece di 100. In soldi, 320 milioni di euro contro i 640 dell’ultimo anno buono. Questa l’orribile verità, combattuta con convegni e strategie di marketing (anche combinati: convegni sulle novità del marketing).

 

Alla qualità dei film nessuno pensa mai veramente, al massimo si dice che l’industria del cinema italiano non può vivere solo di commedie e comici del web. Pensarci davvero vuol dire (anche) porsi il problema: a chi voglio parlare con questo film? “Qual è il mio spettatore modello?”, direbbe Umberto Eco.

 

A chi vuole parlare “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio (ieri in concorso alla Mostra di Venezia e nelle sale l’8 settembre)? A chi vuole parlare un film che dopo una rapida scena d’azione inquadra un uomo giovane e uno meno che si scambiano intense occhiate recitando poesie (perlopiù scritte da loro medesimi, e all’altro dedicate). Non sono i due maschi, neppure gli sguardi intensi, forse neppure le poesie, benché mediocri e scritte su foglietti ripiegati. È l’assenza di ritmo, l’illuminazione cartolinesca, la recitazione teatrale (colpa gravissima per un film su Aldo Braibanti, di cui Carmelo Bene disse: “Mi ha insegnato a leggere i versi”).

 

Il film continua così, all’antica italiana. La madre di nero vestita trova scritto sul muro “casa del culatón” (siamo in provincia di Piacenza, borgo di Castell’Arquato). Molla la borsa e dai portici attraversa mezza piazza, prima di accasciarsi plasticamente. Il regista Gianni Amelio a 23 anni aveva assistito a un’udienza del processo. Trova scandaloso che oggi i trentenni – omosessuali o no – neanche conoscano il nome di Aldo Braibanti, drammaturgo poeta partigiano e mirmecologo (studiava la vita sociale delle formiche, di qui il titolo) accusato di plagio e condannato in prima istanza a nove anni di carcere.

 

Era il 1968 (ma il processo era iniziato 4 anni prima). Vigeva il codice penale fascista che negava l’esistenza degli omosessuali, escogitando però un modo per punirli. Il plagiato aveva compiuto i 21 anni, maggiorenne anche per la vecchia legge. Per lui, ospedale psichiatrico ed elettrochoc, più tante preghiere, da parte della devotissima madre e altri cattolici congiunti. Divieto di leggere libri vecchi almeno 100 anni – antichi greci non pervenuti, come corruttori di gioventù.

 

Le intenzioni sono lodevoli, trasudano impegno civile, al processo si ascoltano frasi raccapriccianti. Sembrano invece una parodia le scene al laboratorio artistico-teatrale del torrione Farnese e la festa di gay romani che sconvolge il giovanotto arrivato da Piacenza. Paiono girate da un nemico della causa. 

 

I film su musicisti, scrittori, artisti non funzionano mai. Quel che accade nelle loro testoline è molto meno interessante del risultato. A riprova, sempre in concorso, c’era la regista britannica Joanna Hogg con “The Eternal Daughter”. Tilda Swinton è una regista che fatica a scrivere il nuovo capolavoro. Con l’anziana madre – sempre Tilda Swinton – va in vacanza nella casa di famiglia, già piuttosto lugubre e ora diventata un albergo senza servitù, senza altra clientela, e con rumori sinistri in soffitta.

 

Ma loro restano, notte dopo notte, e pian piano escono i ricordi. Niente di che, rispetto alle pretese della messa in scena. Ricordi, un po’ belli un po’ brutti, dice la saggia mamma con i capelli bianchi: è la vita, no? Dura un’ora e mezza, c’era materia per un cortometraggio.

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