Frame da "Mad God" di Phil Tippett

I mostri silenziosi di Phil Tippett

Mariarosa Mancuso

Si rivedono le creature di Bruegel e Bosch in “Mad God” del due volte premio Oscar americano, in anteprima mondiale al Locarno Fiilm Festival

Phil Tippett ha creato mostri per George Lucas, Steven Spielberg, Paul Verhoeven (quando girava “Robocop”, lasciando in pace le suore del convento). Ha lavorato con Rick Baker al bar intergalattico di “Star Wars”, quando la saga era conosciuta come “Guerre stellari”. Per “Jurassic Park” era stato “consulente ai dinosauri”. Hanno la sua firma i lupi mannari di “Twilight”. Due Oscar, è l’erede del sublime Ray Harryhausen: con la tecnica pionieristica dell’animazione a passo uno, negli “Argonauti” faceva combattere gli scheletri. Anche Tippett cominciò in stop motion, prima di convertirsi all’animazione computerizzata: non sono tanti gli artigiani che compiono il passaggio senza danni. Gli effetti speciali che prima si facevano con matite, fil di ferro, plastilina ora si fanno con un software. 

 

Da trent’anni, nel tempo libero, fabbrica mostri in proprio. Per farne un film, uno solo. Il lavoro di una vita si intitola “Mad God”, in anteprima mondiale al Locarno Film Festival giovedì scorso, quando Phil Tippett ha ricevuto il Vision Award Ticinomoda. Con la sua barba bianca che lo fa somigliare a George R. R. Martin (l’inventore dell’universo e dei personaggi per la serie “Game of Thrones”) ha tenuto una pubblica conversazione. Nessuna chiacchiera può rendere, se non pallidamente e con il beneficio dell’interpretazione, il mostruoso universo che lo spettatore si trova davanti nell’ora e mezza scarsa di “Mad God”. “Ci ho messo gli avanzi e gli scarti dei film che ho fatto finora”, sostiene Phil Tippett in un’intervista. L’understatement da ricetta del polpettone vale per le scene più sanguinarie, ricche di frattaglie, schizzi di sangue, strumenti per affettare e frullare e arrostire (mai vista la sigla della serie “Dexter”, il serial killer dei serial killer? O il film “Sausage Party”? La cucina è un luogo di torture).

A far da contorno, un film straordinario nella sua mostruosità: vale per il visionario progetto e per la smisurata quantità di esseri deformi e notevoli che lo abitano. La prima scena ricorda la “Torre di Babele” che Pieter Bruegel dipinse in due versioni, già abbastanza paurose. La terza sta in “Mad God”, assieme a innumerevoli citazioni da Hieronymus Bosch (il pittore del “Giardino delle delizie”, non il detective di Michael Connelly). Quasi buio, muri con cavalli di frisia, visori, cannoni, una cabina metallica tra un ascensore e un’astronave che cala dall’alto. Sporca e arrugginita come tutto il resto, mai si vedrà una superficie di metallo lucido. Spunta una vecchia mappa quasi illeggibile (e qui siamo in zona “Codex Seraphinianus”, l’alfabeto e gli esseri fantastici inventati da Luigi Serafini).

Scenari e situazioni sembrano assomigliare a qualcosa di già noto. Storie di fantascienza, visionarie, psichedeliche, di guerra, appartenenti all’universo “steampunk” che nell’epoca vittoriana mossa dal vapore introduce tecnologie di oggi. Ogni elemento è esagerato, sporco, cadente, spaventoso ai limiti del perturbante. Evocativo di chissà quali misteri, dentro una trama che non esiste. O se esiste, resta fino alla fine oscura allo spettatore. Vediamo un soldato con la maschera antigas, ma potrebbe essere un palombaro, e non potremmo giurare che dietro a quella maschera ci sia qualcosa di umano. Due nani (da giardino) litigano, sembra per il possesso di un terzo nanetto: vengono schiacciati dallo scarpone del soldato. Piedi umani hanno unghie smisurate. Omini operai, o robot, vengono fabbricati in serie. Nelle culle, mostriciattoli avvolti nelle fasce. Solo rumori e musica, ma restiamo incantati fino alla fine. Un paragone letterario potrebbe essere “Epepe”, romanzo dell’ungherese Ferenc Karinthy. Un mondo che pare il nostro, dove parlano una lingua indecifrabile anche per un professore che ne conosce tante, vive e morte.

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