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L'appello

Registi, sceneggiatori, attori e produttori unitevi per la libertà di parola

Mariarosa Mancuso

Raccontate il mondo e non badate alle manganellate social, “Whitout Apology”, senza dover chiedere scusa. Un'idea che arriva dal sito di news hollywoodiane Deadline

Una battaglia per la libertà di parola. Nulla di più e nulla di meno. Registi, sceneggiatori, attori, produttori: uniti e combattenti, per garantire ai film che verranno la libertà di raccontare il mondo – non di “rappresentarlo”: la parola già porta fuori strada, verso la fedeltà fotografica o la precisione da cartografo. Il contrario di un bel film. Si rischia la borgesiana mappa dell’impero, tanto precisa da esser grande quanto l’impero, quindi inservibile. O il ritorno al codice Hays, per restare nella storia del cinema.

 

Lancia l’idea il sito di news hollywoodiane Deadline: “Without Apology: The Movie and Those Who Make Them Should Campaign for Free Speech”. Michel Cieply che firma l’articolo sostiene che è già tardi per muoversi, basta vedere cosa è successo nell’ultimo decennio. Nel 2008 Sean Penn era stato celebrato e premiato con l’Oscar per il ruolo di Harvey Milk, in “Milk” di Gus van Sant: il primo politico americano apertamente gay (consigliere al municipio di San Francisco, fu ucciso nel 1978 sul posto di lavoro). Oggi scatterebbe la censura: un attore non gay non può recitare la parte di un gay, è appropriazione culturale, e poi toglie lavoro agli attori gay. Sean Penn ha commentato: “Finirà che solo un principe danese potrà recitare ‘Amleto’”.

 

“Whitout Apology”. Senza dover chiedere scusa. Di recente, ne abbiamo lette di penose. Si capisce che dietro c’è il terrore di venire espulsi dal “consesso civile”, a furia di tweet e altre manganellate social. Il 15 giugno scorso Lin-Manuel Miranda ha scritto un lungo autodafé in risposta a chi lo accusava di non aver messo abbastanza portoricani di pelle scura nel suo ultimo film, tratto dalla sua commedia musicale di grande successo a Broadway. 

 

“In The Heights” (uscito giovedì con il titolo “Sognando a New York”) è ambientato nel quartiere ispanico di Washington Heights a New York. Dove il regista è cresciuto, per poi approdare alla Casa Bianca e suonare per gli Obama il primo brano di un suo altro gigantesco successo: “Hamilton”, il musical hip hop sui padri fondatori degli Stati Uniti. Alexander Hamilton ora sta sulle banconote da dieci dollari, ma era nato povero, fuori dal matrimonio. C’era anche il francese Lafayette, che si era unito volontario alla rivoluzione americana. Su Disney+ lo potete vedere, con il cast originale. Di bianchi ce n’è pochi, attorno a lui che ha scritto i testi e le musiche, e per un paio d’anni era sul palcoscenico nel ruolo di Hamilton. Un simile campione di bravura – insistiamo: nato da portoricani immigrati – è stato costretto a un vergognoso mea culpa. Ha trascurato gli afro-latini, che ovviamente hanno protestato. Lin-Manuel Miranda ha riconosciuto di non essere stato abbastanza attento, che la “rappresentazione” di Washington Heights non era fedele. Scrive di essere molto dispiaciuto. Che imparerà dall’esperienza e farà meglio la prossima volta. Ringrazia per le rimostranze, dichiarandosi sempre pronto ad ascoltare. Serviranno da lezione per i futuri progetti, dove cercherà di onorare al meglio la diversità e la pelle scura degli afro-latini. Siempre.

 

Il codice Hays al confronto era più lasco e aggirabile, con il suo divieto di letto matrimoniale (anche per i coniugi), di sciacquone, di criminali che la facevano franca. Ed era un codice di autoregolamentazione, per evitare censure dall’esterno. Esagerato il paragone? Per niente: la sventurata Rita Moreno –  portoricana, a New York da quando aveva 13 anni , premio Oscar per “West Side Story” – ha osato difendere Lin-Manuel Miranda e anche lei ha dovuto scusarsi. Chi fa cinema cammina su un campo minato. Dalle feroci e implacabili forze del bene.

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