Cannes 2021

“The French Dispatch” merita tutti i premi in palio. Senza discussione

Mariarosa Mancuso

Dopo aver visto il film di Wes Anderson si può evitare il resto del concorso

Se ci fosse giustizia a Cannes 2021, “The French Dispatch” di Wes Anderson porterebbe a casa tutti i premi. Subito, senza vedere il resto del concorso. Palme e palmette da caricare sul pullman giallo da cui sono scesi per la proiezione ufficiale, ai piedi del tappeto rosso, snobbando le macchine nere con i vetri oscurati. Mancava Léa Seydoux, positiva dopo un tampone fatto qualche giorno fa. Mancava anche la consueta conferenza stampa, per via della censura (non c’è altro termine): il film è stato voluto da Scott Rudin, storico produttore di Wes Anderson fin dai “Magnifici Tenembaum” (sotto accusa per molestie. I posteri si chiederanno quando esattamente abbiamo perso il senso delle proporzioni). 

 

 

The French Dispatch” merita tutti i premi, e magari una menzione speciale per il produttore. Film strepitoso, come se ne vedono di rado: appena usciti viene voglia di rivederlo da capo, tanto sono i dettagli che riempiono ogni inquadratura delle tre storie. Più un necrologio (meglio sarebbe obituary all’inglese, sono un genere letterario). Più una rubrica di viaggi affidata a Owen Wilson, cronista ciclista in una città che un po’ è Parigi e un po’ Angoulême. Fa da guida a un divertente giro a Ennui-sur-Blasé, com’era ieri e com’è oggi (solo il quartiere delle puttane rimane identico). Nell’immaginaria cittadina ha sede la redazione di “The French Dispatch”: supplemento che illustra ai lettori laggiù nel Kansas quel che succede nell’Esagono in materia di arte, cultura, attualità, vini e gastronomia. 

Somiglia tanto al New Yorker, e ci sarebbero tanti giochi da fare sul “chi è chi”: il cronista nero e gay intervistato in tv (sponsor: una polvere dentifricia) somiglia all’attivista per i diritti civili James Baldwin, che arrivò a Parigi nel 1948 (racconta tutto nel documentario “I’m not Your Negro”, diretto da regista haitiano Raoul Peck). C’è l’esperta di grammatica, sintassi e fact checking Elizabeth Moss (omaggio ai tanti editor e correttori che hanno lavorato alla rivista). Il direttore Bill Murray ha solo due regole: non si piange in redazione. Gli articoli devono essere scritti senza una parola sciatta né una parola superflua.

Non è un’ode al giornalismo che fu. La categoria lo ha etichettato così, salvo poi – parliamo degli italiani - lamentarsi che ha troppo di tutto: i film per spettatori adulti ormai non li reggono più neanche i critici. Gli spettatori che amano davvero il cinema ne andranno pazzi. E’ un caloroso omaggio a chi ha storie da raccontare e le racconta bene. In velocità, con riferimenti e citazioni che fanno il film ricco e spumeggiante. Se nella storia sulle rivolte giovanili riconoscete il Jean-Luc Godard barricadiero e pop, buon per voi. Se non lo riconoscete, resta lo splendore della coloratissima scena al “Café sans Blague”. Litigando per la canzone del jukebox, sotto gli occhi dell’inviata Frances McDormand. Non crede al giornalismo distaccato, va a letto con l’imberbe rivoluzionario Zeffirellì, l’attore Timothée Chalamet, dopo avergli raddrizzato la sintassi e la grammatica del “Manifesto”).

La critica d’arte è Tilda Swinton (con i dentoni nel vano tentativo di placarne la lunare bellezza). Racconta la storia di un carcerato che si scopre pittore d’avanguardia, complice Adrien Brody che ha una galleria con gli zii. A ogni angolo c’è una faccia nota, tanti sono gli attori che non dicono nemmeno una battuta. Quando le inquadrature simmetriche, le scenografie, il ritmo da cinema muto non bastano, ecco un magnifico inseguimento animato. Prima abbiamo conosciuto il cuoco del commissariato: manicaretti da mangiare con una mano sola, niente zuppe che sbrodolano nelle curve a gomito.