Edward Norto alla Festa del Cinema di Roma (foto LaPresse)

La Festa del cinema apre con un rischio (ben calcolato, con il senno di poi)

Mariarosa Mancuso

Nonostante la lunghezza. Nonostante una trama da noir che pare ovvia e invece è più sfuggente. Nonostante Edward Norton che dirige se stesso in un personaggio difficile, “Motherless Brooklyn - I segreti di una città” funziona bene

Alla fine il mistero si è svelato, e abbiamo scoperto il tema – “segretissimo e folle”, aveva garantito il direttore artistico Antonio Monda – scelto da Ethan Coen per il suo Incontro Ravvicinato alla Festa di Roma. La fila per entrare in sala, manco a dirlo, era lunghissima, segno che il “cinema parlato” al pubblico piace sempre tanto. “Surgery”, ovvero chirurgia. Plastica e salvavita. Per cambiare i connotati agli evasi dal carcere, che a operazione conclusa si ritrovano con la faccia di Humphrey Bogart (in “La fuga” di Delmer Daves: a levargli le bende è Laureen Bacall, nella vita moglie dell’attore, dettaglio che aggiunge un sovrappiù di ironia alla scena, quando la rivediamo oggi).

 

“Per una forma di #MeToo particolarmente cruenta” – parole, non proprio torrenziali, di Ethan Coen: noi ancora manteniamo una certa diffidenza verso i registi giapponesi, ma ci stiamo lavorando – come accade in “Audition” di Takashi Miike. La migliore di tutte? Una scena di “Prima ti sposo e poi ti rovino”, con George Clooney che scopre dalla televisione di essere stato raggirato: il presunto marito ricco è in realtà un attore, neppure di primo piano sicché lavora in una soap ospedaliera. Il film d’apertura – “Motherless Brooklyn - I segreti di una città”, dal romanzo di Jonathan Lethem – era un rischio. Ben calcolato, con il senno di poi. Nonostante la lunghezza (quasi due ore e mezza). Nonostante una trama da noir che pare ovvia e invece è più sfuggente. Nonostante Edward Norton che dirige se stesso in un personaggio difficile (basta un attimo per lasciarselo sfuggire) il film funziona bene. L’ambientazione anni 50 è bella, i personaggi sono interessanti: architetti visionari, case ad affitto bloccato, politici. E detective ex trovatelli, con una parte del cervello che va per conto suo, spara parole a raffica e spinge a comportamenti compulsivi. “Testadipazzo” – così nella traduzione italiana del romanzo firmata da Laura Grimaldi – ha qualcosa in comune con risata incontrollata di Joaquin Phoenix in “Joker” di Todd Phillips. Nelle sale italiane a novembre: potrebbe essere l’occasione per imparare a leggere i sottotitoli (Edward Norton è troppo bravo) e per tagliare due o tre sequenze liricheggianti quanto inutili.

 

“Un cliché fa ridere”, teorizzava Umberto Eco. “Ma se ne metti insieme abbastanza perché si parlino tra loro e celebrino una festa di ricongiungimento, può uscire un capolavoro come ‘Casablanca’”. “Scary Stories to Tell in the Dark” di André Øvredal – tratto da “Storie spaventose da raccontare al buio” di Alvin Schwartz (De Agostini) – è una raccolta di spaventosi cliché. Più per ragazzini che per adulti (il produttore Guillermo del Toro ci perdonerà). Con il ritmo della serie, e troppe spiegazioni. “Le storie feriscono, le storie curano”: lo spettatore lo capisce da solo, senza bisogno del suggeritore.