Photocall del film "Dolor y Gloria". Penelope Cruz, Pedro Almodovar, Antonio Banderas, Asier Etxeandia (LaPresse)

A Cannes va forte l'intellettuale in crisi

Mariarosa Mancuso

Tutto il contrario del modello Alain Delon, bello strafottente e colpevole a priori

Cannes. Pedro Almodóvar ha già stravinto. A parole, almeno (e con una seria ipoteca sulla Palma d’oro, che finora non ha mai ricevuto). “Dolor y gloria” non è stato ancora proiettato ufficialmente a Cannes, già non si parla e non si scrive d’altro. Sul programma ufficiale sta scritto “venerdì” (oggi, alle sette e mezza, per essere precisi). Ma nel primo pomeriggio lo potete già vedere nei cinema italiani, in anticipo sulla proiezione benevolmente concessa alla stampa riunita sulla Croisette. Per sostenere lo sforzo bellico – trascinare gli spettatori al cinema è sempre più difficile, si può solo sperare nel maggio pazzerello – le pagine degli spettacoli hanno risposto compatte. Fino all’esagerazione: Pedro Almodóvar e Antonio Banderas, l’attore che nel film gli fa da controfigura, sono diventati il modello maschile unico di questa edizione del Festival.

  

  

“Dolor y gloria” racconta un regista che somiglia tantissimo a Pedro Almodóvar. Sulla cinquantina (con un po’ di sconto) ancora ricorda l’euforia della movida madrilena celebrata nei primi film (quando Antonio Banderas era giovanotto e impacciato, non il sex symbol che è diventato negli Stati Uniti, salvo poi ridursi a chiacchierare con la gallina Rosita negli spot del Mulino Bianco). Lo cogliamo in piena malinconia da bilancio, con qualche acciacco e molte preoccupazioni per la situazione politica spagnola. Soffre di solitudine, si sente isolato e pure un po’ fragile – ma non si pente di nulla, degli anni giovanili è rimasto l’ateismo.

 

Ogni tanto un flashback riporta all’infanzia, e ai primi brividi per il muratore in canottiera chiamato a sistemare “la grotta” (entra Penélope Cruz, con espadrillas e vestitino a fiori). Per agevolare la somiglianza, sembra che Pedro abbia prestato a Banderas i suoi vecchi abiti. Anche l’appartamento del regista è stato minuziosamente ricostruito, con mobili, soprammobili, quadri. E c’è la mamma, che regala all’ormai maturo regista l’uovo per rammendare le calze, onde non dimenticare quanta miseria c’era prima dei lustrini.

 

A Cannes va forte il modello “intellettuale in crisi”, rafforzato da una bella dose di cinema nel cinema, con gran sfoggio di barba brizzolata e capelli a cespuglio (e chi sarà l’attore che minaccia il regista, per ottenere una parte?). Tutto il contrario del modello Alain Delon, scelto dal festival per la contestata Palma d’onore: bello come il sole, aria strafottente, gran seduttore, capace di passare dalla Sicilia del “Gattopardo” alla Francia occupata dai nazisti, nel film di Joseph Losey intitolato “Mr Klein”, e all’Idroscalo di “Rocco e i suoi fratelli”.

 

“Non gli stiamo dando il Nobel per la pace” ha dichiarato il direttore Thierry Frémaux un po’ stizzito – sono anni che gli chiedono le pari opportunità, quindi ha riempito il programma di registe e ha bilanciato i giurati. Ma non si aspettava le frecce lanciate contro uno dei sex symbol che la Francia ha regalato al mondo. Le colpe? Qualche dichiarazione scorretta, e simpatie lepeniste come Brigitte Bardot, che però è contraria alle pellicce e viene perdonata.

  

Accolto con tutti gli onori il regista gay, e quindi non colpevole a priori, se si parla di donne molestate. Schiamazzi contro l’attore che ha trascinato al cinema schiere di signore e signorine, speranzose che Alain Delon uscisse dallo schermo e le portasse a fare un giro, come in “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen. Pure Sylvester Stallone, per decenni accusato di violenza & maschilismo, si fa un giro a Cannes 2019, con la copia restaurata del primo “Rambo” (e ne approfitta per lanciare “Rambo V”). Ma il cinema non vive di sola boxe, né di giungla vietnamita. Alain Delon nel suo momento di splendore era più bello di Brad Pitt e di Leonardo DiCaprio messi insieme.