Una scena del documentario “Il fattore umano. Lo spirito del lavoro”

Buoni motivi per essere ottimisti sul futuro italiano

Maurizio Crippa

Un bel documentario ci fa riscoprire che il cuore del lavoro è “il fattore umano” 

“Non è bella questa saldatura?”. Ci sono battute che nemmeno gli sceneggiatori bravi del cinema saprebbero inventare, bisogna raccoglierle dallo splendore del vero. Nell’Italia della decrescita e del mugugno, delle fabbriche che se va bene diventano cinesi e della felicità che, se mai esiste, è una fuga da segnalare su Instagram, dove lo trovate un operaio che del suo lavoro sa dire, come una rivelazione: “Non è bella questa saldatura?”. Oppure un giovane papà che è orgoglioso dei trattori che costruisce, perché poi il suo bambino li vede attraversare i campi e può dire ai suoi amici: quello lo ha fatto il mio papà. O pastifici di Gragnano dove ancora si fa essiccare la pasta su filari appesi nel vento, eppure non si è rinunciato a innovare (e a stare sul mercato, come si dice), eppure ci sono padroni di azienda che assumono i figli dei mastri pastai, e poi i loro nipoti, perché l’amore per il lavoro lo impari in casa, e pure il sacrificio. Perché per mandare avanti un’azienda, o riportare una banca sul suo territorio e trasformare l’antico lanificio di famiglia in un hub di nuove imprese digitali, o per crearne un’altra con il meglio delle nuove tecnologie ci vuole serietà, e un bel pizzico di ottimismo. Non c’è niente di naïf in questi racconti, la commedia naïf all’italiana è tutt’altra cosa, e di solito inganna. Invece queste immagini, queste storie, non sono un copione. Sono vere, queste immagini riprese ad altezza d’uomo. Perché il punto decisivo del lavoro, nell’epoca delle intelligenze artificiali, è il suo fattore umano. “Il fattore umano. Lo spirito del lavoro” è il titolo di un documentario. Lo hanno presentato il 22 ottobre alla Festa del Cinema di Roma, il 12 novembre sarà la volta di Milano, la “città del lavoro” da cui è nato questo progetto che ha abbracciato però tutta l’Italia. Da Napoli a Biella, da Mezzocorona a Foligno.

  

Il regista si chiama Giacomo Gatti, è un filmaker e documentarista. La storia da cui è nato “Il fattore umano” assomiglia alla decina di esperienze che nel film si raccontano. Anzi, ne è forse la spiegazione più semplice. C’è un’azienda italiana che si chiama Inaz - Osservatorio Imprese Lavoro, è specialista negli strumenti per l’organizzazione aziendale, i software e le soluzioni amministrative che fanno girare le altre aziende. Quest’anno festeggia i suoi settant’anni. Di solito si pubblicano libri, si coniano medaglie celebrative. A loro è venuto in mente di raccontare il senso di “tutti questi anni trascorsi al fianco di aziende italiane esemplari, piccole e grandi”, e la centralità dell’essere umano nel mondo del lavoro. Hanno investito in un film, che in capitoli tematici racconta da nord a sud una dozzina di queste “storie italiane che non arrivano mai alla ribalta, e invece oggi più che mai è necessario valorizzarle”, come spiega Linda Gilli, presidente e ad di Inaz. Un progetto in collaborazione con la Fondazione Ente dello Spettacolo. Molte persone incontrate, molti chilometri fatti, il cesello di un montaggio discreto per trattenere tanto, e perdere per strada poco.

  

E questa idea guida, che è quella che dà il titolo, con l’ambizione di andare alla radice dell’esperienza (molto italiana) del lavoro e dello sviluppo economico: “In un’epoca in cui la finanza e le nuove tecnologie sembrano scalzare il fattore umano dal centro dell’economia” dice il regista, “la nostra convinzione è che esistano uomini e donne capaci di fare la differenza”. La prima storia è ambientata in una fabbrica di Treviglio, un garbato omaggio a Ermanno Olmi, l’unico cineasta italiano che ha saputo raccontare il mondo del lavoro e di cui Giacomo Gatti è stato allievo e collaboratore. Ma Olmi raccontava un tempo in cui l’industrializzazione era avvertita come un nemico, una perdita. Oggi, dai viticoltori del Trentino ai giovani sviluppatori di start-up, dai chirurghi che testano mani bio-robotiche agli agricoltori che tengono vivo il territorio come un altro aspetto del “fattore umano”, l’Italia è ricca di storie che non hanno paura del futuro.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"