Alice Rohrwacher, Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher e Nicoletta Braschi a Cannes (foto LaPresse)

Qualche premio per Lazzaro arriverà, anche se in sala nessuno lo vorrà vedere

Mariarosa Mancuso

La morale, sempre quella: si stava meglio quando si stava peggio

Cannes. Ma non era morta, la civiltà contadina? Abbiamo letto lamenti. Nostalgie. Si stava meglio quando si stava peggio. Però c’era tanta solidarietà mentre oggi ognuno pensa a se stesso. Le lucciole sparite son tornate ma sicuramente saranno minuscoli droni spioni (con tono da litania, purtroppo non abbiamo gli effetti audio). Macché morta, sta nei film del futuro cinema italiano. In “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher non son finiti i titoli di testa e già appaiono contadini dalle mani nodose e zampognari. Zampognari, sì. E nonni che dormono “da piedi coi nipoti”, come scriveva Pasolini buonanima (annuisce Ermanno Olmi buonanima).

 

 

Spuntata la casella dei poveri, arriva la casella del santo. Senza la quale un film italiano non può degnamente dichiararsi “arte da esportazione”. Arriva Lazzaro, appunto. Giovanotto buono e servizievole, con gli occhioni spalancati sul mondo (anche un sospetto d’idiozia, che con la purezza di cuore ben si accoppia). Vittima ideale del marchesino – figlio della marchesa coltivatrice di tabacco che si è dimenticata di avvertire i suoi schiavi: “la mezzadria è finita”. E come lo chiamiamo il marchesino? Ma Tancredi, naturalmente. E cosa ha dichiarato Nicoletta Braschi in Benigni alla stampa che le chiedeva come aveva recitato la sfruttatrice di manodopera a costo zero? “Ho tirato fuori tutto l’odio che ho per quella gente”. 

 

Basterebbe, per la “biodiversità dello sguardo” invocata dalla regista: come se un Festival dovesse fare spazio ai vini del contadino e alle melette bacate. Invece arrivano i carabinieri, pure un lupo che distingue gli uomini buoni da quelli che non lo sono, e poi siamo tutti in città – sembrerebbero i portici di Torino. Lazzaro ci arriva a piedi, con la stessa maglietta, gli stessi calzoni, lo stesso occhio fiducioso.

 

Gli altri intanto son cresciuti, abbastanza perché una ragazzetta sia diventata Alba Rorhwacher. Morale della favola? Sempre la stessa: “si stava meglio quando si stava peggio”, tutti a dormire sullo stesso pagliericcio mangiando pane e cipolle. Mentre oggi la cicoria la devi cogliere vicino ai binari del treno (“ma si mangia?” chiede ai campagnoli Sergi Lopez, piccolo criminale di città). Per non parlare del gran dolore di Lazzaro, quando scopre – spalancando gli occhioni come se avesse incorporate le pinze di “Arancia meccanica” – che le banche non fan più credito al marchesino Tancredi. Momento Bertolt Brecht: fondare una banca è peggio che rapinarla.

 

Siccome siamo a Cannes nell’anno delle donne, Alice Rorhwacher qualche premio lo porterà a casa. Allungando la lista dei film che in sala nessuno vorrà vedere, neppure i paladini della decrescita felice: che spreco il cinema, raccontiamo storie davanti al focolare, piuttosto. L’altra candidata annunciata era Eva Husson con “Les filles du solei”: guerrigliere yazide contro l’Isis che le aveva rapite e ridotte in schiavitù (la regista preferisce “curde”, fa più simpatia). Palma d’oro annunciata prima di vedere il film, sarebbe stato un sogno unire alle rivendicazioni femministe un po’ di politica. Dopo averlo visto, il sogno lascia il posto alla dura realtà.

 

La regista ha voluto scrivere personalmente l’inno delle guerriere (pare la Marsigliese, infatti). Mette in scena una giornalista con la benda sull’occhio – lo ha perso a Homs dove è morta Marie Colvin. Alla fine del film, richiesta di scrivere la verità, tira fuori la peggiore retorica sullo “sguardo fiero e il vento nei capelli”. Dopo che l’attrice Golshifteh Farahani ha sparato, comandato il plotone, ricordato ai nemici che “un uomo ucciso da una donna non va in paradiso”. Sempre con il foulard legato in testa.

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