Lars Von Trier

Cannes 2018

Lars Von Trier lo scorpione

Mariarosa Mancuso

Il regista torna a Cannes dopo la messa al bando e loda (di nuovo) Albert Speer, l’architetto di Hitler

Lars von Trier era stato convocato con ritardo, perché a Cannes 2018 serviva un provocatore. Un festival non può campare soltanto su registi dai nomi sconosciuti. A meno che non siano campioni come Cristian Mungiu, che con “4 mesi, 3 settimane e due giorni” vinse la Palma d’oro 2011, o Steven Soderbergh che la vinse nel 1989 con “Sesso, bugie e videotape” (finora non abbiamo visto nulla di simile, in concorso). Nel 2013 era stato dichiarato “persona non grata”, per via di certe frasi che riconoscevano a Hitler “qualcosa di buono”. Ora tutto è perdonato – c’è una prescrizione per le idiozie e l’antisemitismo? – e al provocatore hanno steso il tappeto rosso del fuori concorso. Lo stesso dove qualche anno fa pretese e ottenne di far suonare l’Internazionale.

 

  

 

“L’omicidio come una delle belle arti” era un libretto di Thomas De Quincey, che aveva l’oppio a sua scusante ed era dotato di un’ironia british sconosciuta al regista danese (era il 1827, anche i provocatori fanno fatica ormai a escogitare qualcosa di originale). In “The House that Jack Built”, Lars von Trier svolge il tema con la colonna sonora (e le immagini, in vestaglia) di Glenn Gould che suona le variazioni Goldberg: il brano prediletto dai serial killer, come insegna il mangiatore di fegati umani Hannibal Lecter. E un serial killer è in scena, con la faccia di Matt Dillon. Prima vittima Uma Thurman, ammazzata con il cric nei primi cinque minuti (e nel trailer). Né l’uno né l’altra sono al festival che l’altro martedì ha rivendicato parità salariale tra attori e attrici entro il 2020. Per allora sarà pronta una bozza di contratto anche sui serial killer: son quasi tutti maschi e ammazzano solo femmine, bisogna finirla.

 

La black comedy non sarebbe neanche male, se il tormento d’artista non divorasse il serial killer e il serial provocatore, bisognosi di far sapere che il loro cuore batte all’unisono – mentre la voce fuori campo di Bruno Ganz chiede dettagli e precisazioni. Salvo poi irritarsi quando li ottiene, e deve sorbirsi letture da William Blake e ricordi infantili. Un po’ sembra “il dio che atterra e suscita” e un po’ sembra uno psicoanalista – di sicuro li legano certe confessioni da sbadiglio. Vien fuori che è Virgilio, uscito dalla “Divina Commedia” illustrata da Gustave Doré. Intanto Matt Dillon ha indossato la palandrana rossa di Dante, e insieme sono sprofondati nell’inferno per la gioia dello spettatore che sente arrivare la fine delle due ore e mezza.

 

Prima però Jack il serial killer si è costruito una bella casa con i cadaveri congelati: mattoni legno e altri materiali non gli davano soddisfazione – dicono l’ingegnere e architetto che sono in lui (un mestiere solo non bastava, così possono discutere la differenza di ruoli, uno sarebbe il compositore, l’altro il musicista che esegue). In preda al demone della perversità – secondo Edgar Allan Poe, la forza irresistibile che spinge a dire quel che sarebbe bene tacere – Lars Von Trier ricasca sul nazismo, su Albert Speer, sul rumore da crollo delle mura di Gerico che fanno i bombardieri Stuka (c’è la colonna di “Dunkirk”, se vi serve ripassare).

 

Il provocatore è arrivato. E ha fatto come nella favola dello scorpione con la rana, raccontata da Orson Welles in “Rapporto confidenziale”: “Oops, ho lodato di nuovo l’architettura di Albert Speer e le altre cose ammirevoli progettate dal nazismo? Scusate, è nella mia natura”. Lo scorpione ammazza la rana che gli ha dato un passaggio per guadare il fiume, perché “è nella sua natura”. Cose che succedono quando a un festival si insegue l’arte, si snobba l’industria di Netflix, si omaggiano le donne mostrando sullo schermo un portamonete ricavato da una tetta.

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