“Lazzaro felice”, il film di Alice Rorhwacher

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Le lodi per “Lazzaro felice” non scandalizzano nessuno. E invece dovrebbero

Mariarosa Mancuso

Siamo nell’Italia del sottosviluppo, quella de neo-neorealismo che all’estero piace tanto. Piace ai politici e ai commissari europei

Tanto scandalo per quel che i tedeschi e i presidenti della Commissione europea hanno detto degli italiani e del Mezzogiorno. Neanche l’ombra di uno scandalo – anzi, fierezza e compiacimento – per quel che i critici stranieri hanno scritto di “Lazzaro felice”, il film di Alice Rorhwacher che al Festival di Cannes ha vinto il premio per la sceneggiatura. Vero, c’erano governi da fare e da disfare. Dev’essere per questo che nessuno ha notato la fatale contraddizione. La sceneggiatura di “Lazzaro felice” era scarsa, in verità. Ma qualche giorno prima si favoleggiava di una Palma d’oro, complice la quota del 50 e 50 tra femmine e maschi da raggiungere entro l’anno 2020, con l’impegno di Cate Blanchett. Sicuramente in giuria c’erano fan del film scesi a compromessi pur di veder premiata la paladina degli umili. In odore di santità, come dicevamo di Ermanno Olmi noi che non apprezzammo “L’albero degli zoccoli” (e meno ancora “Il mestiere delle armi” e “Centochiodi”): “regista e santo”.

 

 

Le lodi per “Lazzaro felice” non scandalizzano nessuno. E invece dovrebbero. Non solo perché l’etichetta “ispirato e poetico capolavoro” non corrisponde ai fatti. Il film è troppo lungo, sconnesso, ideologico e pieno di pretese, collocato nelle intenzioni della regista tra “L’idiota” di Dostojesvkij e San Francesco. Il presunto capolavoro mostra contadini con le mani nodose, tre generazioni che dormono ammucchiate sullo stesso pagliericcio ma si vogliono tanto bene pur mangiando pane e cipolle. Sfruttano lo scemo del villaggio, chiedendogli favori e fatiche da lui eseguiti con animo lieto e gli occhioni spalancati sul mondo (che fa schifo, ma egli lo trasfigura con la sua purezza di cuore). A loro volta sono sfruttati da un’avida marchesa madre di marchesino nullafacente, capace solo di inscenare il proprio rapimento per carpirle un po’ di denari.

 

Siamo nell’Italia del sottosviluppo, che all’estero piace tanto. Piace ai politici e ai commissari europei come ai critici cinematografici, incantati come qualunque turista dalla cartolina con il pino e il mandolino. Ai primi si intima di stare zitti e di farsi gli affari loro, mangiacrauti e burocrati europei che non sono altro. Guardassero la trave nei loro occhi e smettessero di criticare la pagliuzza negli occhi del vicino. Ai secondi si dice: “Ancora, ancora… parlate bene della nostra cinematografia neo-neorealista, lodate le nostre registe che vivono in campagna sdegnando la luce elettrica e la modernità, intente a raccontare un mondo contadino che non muore mai, dove la miseria è mezza elevazione spirituale, i calzoni sono tenuti su con la corda e la maglietta è sempre lercia e sudaticcia”. Bisognerebbe decidersi, e porre fine alla schizofrenia. Come ci vedono all’estero dipende anche dai film che produciamo ed esportiamo.

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