Penelope Cruz, foto LaPresse

A Cannes si inizia con sbadigli, film di otto ore e retorica sulle lesbiche a Nairobi

Mariarosa Mancuso

Penelope Cruz e Javier Bardem hanno attirato nella trappola il regista Asghar Farhadi: “Todos lo saben” è brutto. “Dead souls” non ha spettatori

Cannes. “L’impuro, il bizzarro, il mai-visto-prima”. Questo promette Thierry Frémaux – a Cannes non si muove una foglia che lui non voglia – in un’intervista sui 50 anni trascorsi dal maggio ’68. Allora François Truffaut e Jean-Luc Godard per solidarietà con i manifestanti parigini fecero chiudere il Festival in anticipo (lo spagnolo Carlos Saura si aggrappò al sipario per impedire che proiettassero il suo film, quando si dice il masochismo). Lo ricorda un film pettegolo e anti-cinefilo come “Il mio Godard” di Michel Hazanavicius, visto qui l’anno scorso. Quest’anno Jean-Luc Godard sta in concorso con “Le livre d’images”. Quando si dice la coerenza rivoluzionaria: dal 1980 si è concesso a Festival dieci volte, non una. E il manifesto dell’edizione 2018 lo omaggia con un bacio – senza sospetto di molestie, finora – tratto da “Pierrot le fou”.

 

Promesse da direttore di festival. Che poi accoglie con tutti gli onori “Todos lo saben”, il vanity movie con Penelope Cruz e Javier Bardem. Hanno attirato nella trappola il regista Asghar Farhadi, premio Oscar per “Una separazione”, magnifico film dove tutti avevano torto. Lì parlavano a bassa voce, senza far grandi rivelazioni: la tensione saliva scena dopo scena, complicando l’intreccio e rivelando i personaggi. Qui è il contrario: urlano, si mettono la mano sul cuore per esprimere sincerità, le luci son da fotoromanzo o da Pro Loco. La mamma affranta Penelope Cruz – le hanno rapito la figlia durante un matrimonio, complice un blackout – ha un maquillage perfetto e due occhiaie da panda disegnate con il pastello nero. Vengon fuori prevedibili segreti familiari, al massimo cavano uno sbadiglio (o una risatina quando Javier Bardem in maglietta sudata decide se pagare o no il riscatto, dopo un giro tra i vendemmiatori).

 

 

Asghar Farhadi aveva raccontato la sparizione di una ragazza, con maggiore astuzia e uno sguardo sulla borghesia iraniana fornita di borse Vuitton, in “A proposito di Elly”. La trasferta spagnola gli fa malissimo, e nel bel mezzo delle polemiche Netflix sì-Netflix no si poteva evitare di aprire con un brutto film che nelle sale francesi è uscito 24 ore dopo la proiezione al Festival (c’è da malignare, suggerendo che sono i distributori e i proprietari di sale a dare la linea).

 

 

A compensare il polpettone con i divi – rari in questa edizione, supplisce Mademoiselle Cate Blanchett presidente di giuria (così l’hanno annunciata all’inaugurazione) – arriva il sesto grado cinefilo. “Dead Souls” di Wang Bing dura otto ore (una di intervallo dopo le prime quattro) e non c’entra con Gogol. Son prigionieri morti di fame 60 anni fa, e interviste ai sopravvissuti. Pura necrofilia, già esibita dal regista Wang Bing, vincitore del Pardo d’oro a Locarno 2018 – li allevano in batteria come i polli, da un festival all’altro senza mai uno spettatore – in “Mrs Fang”. La morte in diretta, occhi fissi e bocca semiaperta, di una vecchietta con l’Alzheimer.

 

All’attualità da dibattito provvede la sezione Un Certain Regard. “Rafiki” – sta per “amica” – racconta due ragazze lesbiche a Nairobi, la regista si chiama Wanuri Kahiu, classe 1980. Son figlie di candidati rivali, così viene bene il discorso sulla società che opprime a dispetto della politica (anche le classi sociali delle morose variano, ma tutti menano). Kitsch vestimentario, treccine con ornamenti rosa, viola, fragola e lampone – fanno color fucsia anche il maculato, da non crederci – divani con stampe che a fissarle provocano il giramento di testa, scimmiette in plastica. Kitsch anche il proclama “l’amore non può mai essere un crimine”.

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