Salim Kechiouche e Lou Luttiau, due degli interpreti del film, alla presentazione di “Mektoub” all’ultima Mostra del cinema di Venezia (foto LaPresse)

“Mektoub”, il corpo all'indice

Mauro Zanon

Uno sguardo troppo maschile. Il film di Kechiche è un inno sensuale alle donne e alla vita, ma il regista è braccato dalle femministe francesi

François Truffaut, figura emblematica della Nouvelle Vague francese, diceva che “il cinema è l’arte di far fare delle belle cose a delle belle donne”. Per questa frase, il regista di “Baci rubati” sarebbe oggi braccato dalle femministe, travolto dalle accuse di sessismo e indicato come pericoloso interprete del “male gaze”, per riprendere il celebre concetto della suffragetta inglese Laura Mulvey, sviluppato nel saggio “Visual pleasure and narrative cinema” (1975). Per fortuna Truffaut è nato in un’altra epoca, ma al suo posto, ai nostri giorni, è un altro autore cinematografico a subire gli attacchi delle vestali del #metoo e del #balancetonporc, perché ritenuto colpevole di attardarsi troppo sul corpo delle donne con la sua telecamera, di porre il suo sguardo di “maschio dominante” sulle forme sinuose di giovani e graziose attrici: Abdellatif Kechiche. Da quando ha presentato alla Mostra cinematografica di Venezia “Mektoub, My Love: Canto uno”, racconto di un’estate spensierata nel sud della Francia all’inizio degli anni Novanta, con protagonista un gruppo di giovani innamorati della vita, del piacere, dei baci che sanno di salsedine e delle notti infinite in discoteca, il regista franco-tunisino è diventato il bersaglio numero uno del femminismo militante.

 

Il film è il racconto di un’estate spensierata nel sud della Francia all’inizio degli anni Novanta, con protagonista un gruppo di giovani

“I 180 minuti di ‘Mektoub, My Love: Canto Uno’ sono la prova apolitica dell’arroganza masturbatoria di Kechiche”, aveva scritto lo scorso settembre Another Gaze, sito di riferimento del cinema femminista, che milita per un “altro sguardo” rispetto a quello insopportabile degli uomini (il “male gaze”, appunto). “Non c’è nulla di maschilista nel mio approccio, descrivo invece delle donne forti, potenti e libere”, rispose Kechiche alle critiche, provenienti, in particolare, dalla stampa puritana anglosassone. Ma in queste settimane, con l’uscita nelle sale francesi di “Mektoub”, il processo per voyeurismo nei confronti del regista franco-tunisino è ripreso a spron battuto. C’è chi critica l’“esposizione della carne” di Kechiche, soprattutto per la scena in cui le ragazze vengono riprese per trenta inebrianti minuti mentre ancheggiano, twerkano e si scatenano sulle note di “You Make Me Feel” e altri tormentoni retrò, e c’è chi dice di aver assistito, parole testuali, a un “film di culi”. E poco importa se sono le stesse attrici a rimbalzare le accuse delle femministe e dei giornalisti che accusano Kechiche di essere un “maiale”. “Non bisogna raccontarci menzogne, anche nella vita sono sempre stata osservata, scrutata dalla testa ai piedi e non sempre in maniera simpatica. Nel film, vengono mostrati i corpi delle donne, la bellezza, il piacere. E’ anche questa la libertà e la liberazione delle donne”, ha dichiarato a Gala Ophélie Bau, protagonista di “Mektoub”, dove il suo “corpo pieno di vita”, come lei stessa lo definisce, viene mostrato insistentemente da Kechiche. E ancora: “Ho fatto questa film con cognizione di causa, o meglio la mia è stata una scelta volontaria. Non ho scoperto all’improvviso che si doveva essere nudi, sexy o che ne so. Prima ancora di fare dei film, sognavo di fare cinema, volevo rappresentare la realtà, il corpo, la nudità, il sesso… fa parte della vita, dunque si devono poter vedere queste cose al cinema senza aver paura di scioccare o di sconvolgere qualcuno”. Ma la nudità generosa di questa ragazza di 25 anni, che ha studiato per diventare infermiera e si è ritrovata a essere la nuova musa di Kechiche, ha sconvolto, eccome, le femministe di ogni latitudine, secondo cui le giovani attrici sarebbero state tutte oggettificate, dunque degradate dallo sguardo maschilista di un tiranno con in mano una cinepresa.

 

 

“Kechiche est-il un gros dégueulasse?”, si è chiesta la rivista bimestrale femminista Solidarités, ossia Kechiche è un grande porco schifoso? Nell’articolo, firmato da Kerry Harrison, si dice che il film “mette in imbarazzo per lo sguardo maschile, eteronormato e reificante che pone sulle sue giovani attrici, tutte una più bella dell’altra. Come spettatrici (e forse anche come spettatori, per alcuni), si fa fatica a liberarsi dal malessere di aver posto questo sguardo – contro la propria volontà e per tre ore consecutive – sul corpo di Ophélie, di Céline e di Charlotte (le altre due protagoniste femminili, interpretate da Lou Luttiau e Alexia Chardard, ndr). Dei culi prorompenti e generosi, nudi, coperti da mutandine, da costumi da bagno, da mini-shorts, da dei pantaloni da jogging, da una gonnellina, da un abito da sera, in spiaggia, al mare, sotto la doccia, su un letto, in discoteca, da molto vicino e da lontano. Resta la sensazione spiacevole di essere stati complici di questo ‘male gaze’ eterosessuale, di esserci fatti noi stessi portatori di questo sguardo sulle donne, di esserci rifatti l’occhio dietro il preteso di aver visto un film d’autore, in nome dell’arte”. Se fosse per loro, oltre al reato di “oltraggio sessista”, che la ministra per le Pari opportunità, Marlène Schiappa, introdurrà in Francia entro l’estate, si dovrebbe introdurre anche il reato di “sguardo lubrico”, per punire gli uomini à la Kechiche che hanno ancora quella malsana idea di celebrare la bellezza carnale del sesso femminile.

 

“Le mie attrici sono perfettamente coscienti” risponde il regista, che non si è mai piegato all’ideologia dominante

Ophélie, Céline e Charlotte ridono, seducono, ballano, fanno l’amore, sorseggiano cocktails, parlano di maschi e di corpi maschili, mangiano pasta e si sporcano le labbra col sugo, si baciano tra loro per suscitare il desiderio di Amin, che però preferisce i sapori semplici e una relazione più duratura, e si lasciano andare sullo sfondo della luminosa estate di Sète, sono donne libere e desideranti, indipendenti e edoniste, ma nonostante ciò, per la critica femminista, restano un oggetto in balìa dello sguardo maschile. “Il loro principale interesse resta il loro sex-appeal e l’effetto che il loro corpo provoca sugli uomini che le affiancano. Difficile allora sfuggire a un’analisi caricaturale: Ophélie, Céline e Charlotte evolvono (passivamente) sotto lo sguardo (attivo) degli uomini, del regista e del pubblico. Peggio: si ‘osservano mentre sono osservate’, secondo le parole di John Berger, trasformando così loro stesse in un oggetto da contemplare e desiderare attraverso lo sguardo che pongono su di loro. Le contempliamo nello stesso tempo in cui si contemplano mentre sono contemplate. Danzano e ridono a crepapelle per noi. I loro baci esistono soltanto nella misura in cui esistiamo. Potenza e libertà si diceva? Vi vediamo piuttosto oppressione e ostacoli”, scrive la giornalista di Solidarités. Il suo attacco frontale a Kechiche e al suo intollerabile “male gaze”, non è stato certo isolato. Nelle ultime settimane, il cineasta nato in Tunisia ma trasferitosi a Nizza all’età di 6 anni, è stato sottoposto a batterie di j’accuse e di domande pruriginose da parte della stampa francese, più interessata a chiedergli perché si era permesso di consacrare due ore delle tre totali a filmare corpi che si intrecciano, che a capire il messaggio del film negli occhi romantici e sognatori di Amin (Shaïn Boumedine), Antoine Doinel moderno e alter ego di Kechiche, opposto al seduttore impenitente Tony (Salim Kechiouche).

 

Il Monde, parlando di “Mektoub” come un film che contiene un’“ode impudente al ‘twerking’”, gli ha fatto notare che la sua maniera di filmare le donne divide gli spettatori, tra coloro che vi trovano una celebrazione carnale di personaggi che ama, e altri che vedono soltanto la riproduzione di fantasie di dominazione maschile. “Sinceramente credo di non aver fatto violenza a nessuno filmando un corpo femminile. Le mie attrici sono perfettamente coscienti e le scene che giro con loro sono secondo me giustificate”, ha risposto Kechiche. “In un film che parla del desiderio, le vedo come un omaggio reso alla loro bellezza. Una donna che danza mi emoziona. E’ qualcosa di magnifico, vibrante, erotico, che viene dal corpo e allo stesso tempo va al di là del corpo, è qualcosa di orgasmico. Penso del resto che un artista che crea non è né uomo né donna, diventa asessuato. Altrimenti, dovremmo fare un processo agli artisti del Rinascimento, a Courbet e al suo dipinto ‘L’origine del mondo’, e perché no agli scultori preistorici delle Veneri callipigie”. Il quotidiano dell’establishment parigino ha poi insistito sulla questione della “dominazione maschile”, chiedendo al regista cosa ne pensava del movimento #metoo. “Tanto meglio se delle donne nel mondo si sentono sufficientemente libere per denunciare le molestie che subiscono. Tuttavia, mi interessa molto poco ciò che accade nel milieu hollywoodiano, e lo trovo anche un po’ malsano. La copertura mediatica di questi fatti mi sembra un po’ sproporzionata rispetto al loro reale interesse. Gli orrori della guerra in Siria e i crimini contro l’umanità, a mio avviso, meriterebbero un po’ di più le prime pagine dei giornali…”.

 

“Culi prorompenti e generosi, nudi, coperti da mutandine, da costumi da bagno, da mini-shorts, da un abito da sera…”

E’ così Adellatif Kechiche. Non si è mai piegato all’ideologia dominante, non ha mai ceduto al politicamente corretto, non ha mai svenduto il suo nome, nemmeno quando la gauche nizzarda aveva cercato di conquistarsi il suo voto per attirare la comunità maghrebina locale e battere il candidato gollista Christian Estrosi. “E’ il miglior scudo contro il Front national”, aveva dichiarato in occasione delle elezioni comunali del 2014, lui che si era sempre rivendicato vicino al Partito socialista, ma rimproverava alla sinistra di essersi dimenticata del popolo. In un’intervista al settimanale Inrockuptibles, nel 2015, fece rizzare i capelli ai benpensanti quando affermò di preferire Marine Le Pen, leader del Front national, all’ex capo di stato Nicolas Sarkozy: “Tra Sarkozy e Marine Le Pen, preferisco la Le Pen. Lei non andrebbe a fare la guerra in Siria o in Libia. E’ più intelligente di Sarkozy. Direbbe, ‘in quanto donna e madre, non andrò ad uccidere degli arabi in Siria mettendomi al servizio degli americani’”. Lo scorso anno, ha girato le spalle al Festival di Cannes in seguito a un problema di contratto con France Télévisions, e in estate ha annunciato che per finanziare la post-produzione di “Mektoub” aveva deciso di vendere la Palma d’oro, conquistata proprio sulla Croisette con “La vita di Adele” (2013). Come per “Mektoub”, cinque anni fa, Kechiche fu al centro dei fuochi incrociati delle femministe per il modo in cui aveva raccontato e filmato la storia d’amore passionale e tumultuosa tra due adolescenti lesbiche, Adèle, interpretata da Adèle Exarchopoulos, e Emma, incarnata da Léa Seydoux. C’erano troppe scene di sesso esplicite e gratuite per Julie Morah, autrice del romanzo “Le bleu est une couleur chaude” che ha ispirato il film. Scene, secondo lei, che erano “frutto di un’interpretazione di voyeurismo maschile”, “pornografia per menti maschili”. Anche Léa Seydoux parlò di “riprese estenuanti” e di aver “sofferto” sul set, “con tutte quelle scene di sesso così prolungate”, fomentando il sabba contro il “sadico” Kechiche. Quest’ultimo, in un’intervista a Télérama, fu costretto a spiegarsi, ma non risparmiò alla sua attrice un attacco frontale: “Se ha veramente vissuto ciò che racconta, perché è venuta a Cannes a piangere, a ringraziare, a sfilare sul tappeto rosso, a passare giornate intere a provarsi vestiti e gioielli? Che mestiere fa lei, l’attrice o l’artista di gala?”.

 

Non bastò, ovviamente, per calmare le femministe, che lo avevano già scelto come nuovo nemico pubblico numero uno. Cinquant’anni fa, le stesse avrebbero processato Fellini e Buñuel per il modo in cui filmavano le donne. Kechiche, cineasta della luce, ha soltanto la sfortuna di vivere nell’epoca del #metoo. “Ho la sensazione che viviamo in un’epoca terrificante. Gli attacchi terroristici e la tensione sociale mi hanno terribilmente oppresso. Questo film è stato fatto contro tutto ciò. E’ una via di fuga. Un tentativo di purificarsi lo spirito. Rivendico il fatto che non racconto niente di speciale. Di essere semplicemente nell’innocenza, nel gioco, nel piacere collettivo, nel momento e nel movimento delle cose”, ha detto al Monde. Alla fine, comunque, vincerà “Mektoub”, inno sensuale alla vita, alla bellezza, alle donne.

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