Fate la pasta, non fate la guerra (del grano)
C'è un assedio del frumento straniero che si insinua dietro le linee del genuino prodotto nostrano? La polemica è vecchia, ma la questione è più complessa di quel che si racconta
La saga garibaldina racconta che in una taverna di una città portuale nel Mar d'Azov, Taganrog, nel 1833, un giovane capitano genovese sentì un marinaio italiano parlare del riscatto dell'Italia e s’entusiasmò. Il marinaio era Giovan Battista Cuneo e il capitano Giuseppe Garibaldi, in Ucraina per caricare grano su un brigantino del Regno di Sardegna. Insomma, la storia dell’importazione di grano in Italia parte ben prima della nascita dell’Italia stessa.
E se c’era una volta la “battaglia del grano”, lanciata da Mussolini per raggiungere l'autosufficienza produttiva dell'Italia, settant’anni dopo, a salire sul trattore a petto gonfio è la Coldiretti. La principale associazione agricola italiana da tempo sostiene quella che – con enfasi titolistica – è definita la “guerra del grano”. Per intendersi, l’assedio sarebbe quello del grano straniero che si insinua dietro le linee del genuino prodotto nostrano. E ne abbassa prezzo e valore, grazie a “speculazioni create ad arte facendo arrivare nei porti italiani grandi quantità di grano spesso vecchio di un anno”, come afferma Rolando Manfredini – responsabile sicurezza alimentare di Coldiretti – in un articolo pubblicato su Repubblica.
La polemica sulla “guerra del grano” non è cosa nuova: almeno dal 2016 Coldiretti porta avanti un’eclatante campagna per sostenere la fantasiosa tesi sulla tossicità del frumento importato e organizza gli agricoltori che lasciano le campagne sui trattori per stringere d’assedio porti e città a difesa del frumento nazionale. Il canovaccio funziona e si ricicla: i media raccontano le proteste senza approfondire, la difesa a oltranza del made in Italy fa breccia tra la gente, diventa slogan e bandiera. Peccato che per produrre la pasta italiana ci sia assoluto bisogno del grano duro scaricato nei porti, così come l’olio estero, il latte e le cosce di maiale che attraversano le Alpi servono per produrre ed esportare prodotti considerati il fiore all’occhiello dello Stivale.
Il ministero della Salute, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, ha predisposto a partire dal 2016 il piano nazionale di controllo ufficiale delle micotossine 2016-2018. Il documento pubblicato il 18 settembre 2017, non ha rilevato irregolarità in alcun campione di grano importato analizzato. Manfredini si dice soddisfatto del risultato, ma dichiara a Repubblica che “il ministero della Salute, nel 2016, ha diffuso un rapporto sui fitofarmaci, nel quale si attestava che nel grano canadese il limite era tre volte superiore a quello stabilito in Italia”. In realtà nei rapporti del ministero – sia quello con i dati del 2013 sia quello diffuso l’8 giugno 2017 relativo ai dati del 2015 – non è indicata l’origine del grano e dunque non si specifica se è canadese, ucraino o messicano. Inoltre nella prima indagine le analisi su 440 campioni di cereali hanno evidenziato solo un risultato irregolare e nel dossier di giugno i campioni con valori superiori ai limiti di legge sono solo due (lo 0,4 per cento del totale), mentre l’84,7 per cento non presenta residui e il 15,3 per cento ne ha una quantità inferiore ai limiti di legge.
“La reazione di Coldiretti è insensata: si dicono scontenti di una buona notizia, cioè quella che certifica come il controllo italiano ed europeo sui prodotti d’importazione funzioni bene”, spiega al Foglio Riccardo Felicetti, presidente Aidepi, l’associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane: “Si tratta di regole europee a cui tutti ci dobbiamo adeguare”. Quelle dei pastai, insomma, sono “famiglie pragmatiche e abbiamo fiducia nelle istituzioni”. Al contrario, sostiene Felicetti, Coldiretti starebbe “cercando di aumentare il valore del prodotto italiano creando due mercati: quello nazionale e quello estero. Ma lo fa in modo artificiale e scorretto”. Aumentare il valore del prodotto è un obiettivo che hanno anche i pastai, che però affermano di volerlo fare “aumentando la qualità delle filiere e del grano duro, non terrorizzando i clienti”, come farebbe l’associazione degli agricoltori.
Il grano duro italiano non è sempre il migliore. Le semole più pregiate, sostiene l’Aidepi, derivano dalla miscelazione di quello nazionale ed estero. In più gli industriali non importano grano per ridurre il prezzo: quello straniero costa il 15 per cento in più e viene acquistato proprio perché quello locale non ha la giusta quantità di proteine. “Se il grano italiano sarà più caro questo ricadrà sui consumatori”, aggiunge Felicetti. “Siamo di fronte a un’organizzazione sindacale che a spallate cerca di far aumentare il valore di un prodotto. Come può il ministero dell’Agricoltura lasciare che si accusino gli agricoltori e i produttori di avvelenare i propri clienti?”.
Certo la politica non è innocente e c’è chi delle fantasiose battaglie protezioniste fa arma elettorale: “Spesso c’è chi trae beneficio da queste campagne, ma la lotta del mondo agricolo nazionale contro gli esportatori di grano è molto antica. Basti pensare che nel secolo scorso fino al settanta per cento del grano era d’importazione, che Garibaldi lo importava e i pastifici si creavano vicino ai porti. Ma anche le nostre aziende sono secolari e sono abituate a pensare a obiettivi di lungo periodo. Per noi pastai è importante creare un sistema stabile a lungo termine, basato sulla qualità e l’eccellenza delle lavorazioni”. Senza perdersi in sterili battaglie “per autoreferenzialità”. Insomma se c’è un made in Italy da difendere è un fatto di competenze e non di materie prime, ma piuttosto di come queste, anche se straniere, vengono lavorate.
Antisemitismo e fornelli