Carlin Petrini (foto LaPresse)

La triste retorica passatista s'è impossessata del G7 sull'agricoltura

Antonio Pascale

Coltivare cipolle di Tropea non è come piantare mais

E’ finito il G7 agricoltura. E mi chiedo: ma cosa davvero pensa un cittadino quando sente parlare di agricoltura italiana? Magari è confuso da un eccesso di informazioni che, in questo campo, gli opinion leader mettono sulla carta, e che in genere sono contraddittorie l’una con l’altra. Fanno a cazzotti. Da una parte si vuole il chilometro zero e la filiera corta e tuttavia siamo anche un paese esportatore, come la mettiamo con i nostri prodotti che attraversano la frontiera? Non sia mai che pure la Germania, la Francia o altri paesi si mettessero in testa di servirsi solo di produzione locale a Km0, cioè la loro e non la nostra. Da una parte si desidera comprare dal proprio contadino che naturalmente ha una fattoria piccola, carina, vintage e tanto buona, dall’altra i dati ci dicono che il grande problema della nostra agricoltura è uno solo: è troppo piccola e quindi è sostenibile, perché, appunto, è piccola. Cioè, in Italia, più di un milione di aziende agricole hanno una Sau inferiore ai 5 ettari, quelle con Sau tra i 5 e 15 ettari sono 260 mila e passa e insomma alla fine solo 89 (dico 89) aziende hanno mille ettari di Sau: queste ultime producono gran parte del made in Italy tanto amato. Tradotto in soldoni, vuol dire che i grandi comparti, cereali, vite, olio e carne, sono accomunati dalle stesse tristi problematiche: aziende piccole, imprenditori anziani e con scarsa propensione all’innovazione (anche perché fanno poco reddito) e manovalanza mal pagata (qualcuno dice e credo a ragione, manovalanza schiavizzata), quindi nella sostanza piccolo non è bello ma è un problema serio.

 

  

Cosa prova il cittadino quando sente i tutti i ministri dell’agricoltura dichiarare che sì, bisogna aprirsi all’innovazione ma poi nei fatti si sta portando avanti una campagna contro il miglioramento genetico e contro la ricerca pubblica. Più precisamente, opinion leader come Petrini che incredibile a dirsi sono tra i pochi relatori invitati a intervenire ai lavori del G7 dell’agricoltura (eppure abbiamo il fior fiore di ricercatori pubblici bravi e innovativi), insomma questi opinion leader con opinioni fondate appunto sulle proprie opinioni e non su evidenze scientifiche, per risolvere i problemi che pur ci sono, da anni e con molto spazio stanno proponendo strumenti blandi, vedi il biologico, e abbastanza risibili (vedi biodinamico) solo perché evocano scenari suggestivi. Emozionano sì, ma non fanno di certo pensare né risolvono i suddetti problemi. Perché mai si grida all’innovazione e dall’altra hanno la meglio le retoriche passatiste (i bei sapori di una volta) messe in campo da persone che non sanno com’è complesso e soprattutto duro e amaro un campo da coltivare. Come ci si sente, allora se le suddette retoriche, diciamo così, di scuola Petriniana, e cioè tecnicamente parlando, anti innovative e anti moderne, si sono dimostrate un disastro per la nostra agricoltura – con l’eccezione del vino che tuttavia sotto il velo di una formidabile retorica passatista, ha in realtà innovato moltissimo. Come ci si sente se da una parte bisogna puntare sui prodotti tipici e dall’altra ci rendiamo conto che questi rappresentano sul valore dell’agroalimentare intorno all’8 per cento. Per essere spietati, contribuiscono a formare questo 8 per cento solo quattro prodotti, i due formaggi e i due prosciutti?

 

Quelle retoriche che ci illudono, facendoci credere che quello che va bene per un’agricoltura tipica di nicchia vada bene per tutto. Che la coltivazione della benemerita cipolla di Tropea sia uguale a quella del mais o della soia, e dunque se si punta (almeno a parole) sulla cipolla di Tropea si risolve pure il problema del mais: come se il racconto mitologico sui prodotti agricoli potesse sospendere le leggi dell’economia. Come si sente, insomma, il cittadino, se dopo il G7 è ancora più frastornato da belle e poetiche dichiarazioni, fatte da retori e cattivi poeti dei tempi andati. Se deve tenere insieme la biodiversità e la sensazione contraria, la monocultura: non si parla mai delle varie agricolture ma di un’unica agricoltura, tutta sotto lo stesso segno: la confusione e la contraddizione? Che risolve solo i problemi di bilancio di chi grida torniamo alla terra e non certo di chi lavora la terra?

Di più su questi argomenti: