L'avanzata jihadista in Mozambico

Case devastate, chiese bruciate, migliaia di sfollati. L'allarme della Chiesa locale: "I miliziani si ispirano allo Stato islamico"

Matteo Matzuzzi

Si sta replicando quanto già visto in Afghanistan con l’abbandono delle truppe occidentali e il ritorno dei talebani e con analoghi ritiri di militari stranieri nel Sahel: l’intensificarsi degli attacchi jihadisti coincide con il ritiro dei contingenti stranieri della missione militare Samim che presidiava la provincia di Cabo Delgado

Roma. Lo scorso 10 maggio, almeno cinquecento jihadisti riconducibili al gruppo Ansar al Sunna, affiliato allo Stato islamico (si fa chiamare anche al Shabaab, ma non sembrano esserci collegamenti diretti, al di là della propaganda, con l’organizzazione islamista somala), sono entrati a Macomia, città di 35 mila abitanti situata nella provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale. Centinaia di persone, terrorizzate, sono scappate trovando riparo nella foresta. Il 6 maggio, nel villaggio di Siripa, duecento chilometri più a sud, erano state bruciate due chiese, una scuola e poco meno di duecento case. Sul web la propaganda mostra i gruppi armati brandire le bandiere nere del Califfato davanti ai pick-up parcheggiati sulle strade sterrate: “Abbiamo cacciato l’esercito e i cristiani”, recitano gli slogan. Altri attacchi sono stati compiuti nei villaggi di Missufine e Cajerene, con analogo copione: gente che scappa, abitazioni date alle fiamme e donne e bambini rapiti. Il motivo? Vengono usati come scudi umani per impedire all’esercito di sparare sulle milizie jihadiste. Lo si è visto a marzo, quando un gruppo di cinquecento terroristi ha attaccato un presidio delle Forze armate schierando in prima linea duecento fra donne e ragazzini. 

La situazione si sta rapidamente deteriorando, anche perché Macomia era considerata più sicura rispetto ad altre località della provincia, soprattutto dopo che l’esercito mozambicano aveva aumentato il contingente in servizio presso la locale base militare, in conseguenza degli attacchi alla città del 2020. A febbraio, i jihadisti avevano occupato una cittadina di pescatori applicando alla popolazione i metodi che gli sgherri del Califfato avevano fatto valere nella Piana di Ninive, quando a comandare era Abu Bakr al Baghdadi: per i non musulmani, c’è un’unica modalità di salvare vita e casa: pagare una tassa. Nella cittadina di Mazeze i militanti avevano colpito l’ospedale (devastandolo), il mercato e la missione cattolica di Nostra Signora d’Africa. I numeri degli sfollati sono incerti: alcune stime parlano di “almeno 80 mila persone, per lo più cristiane” scappate dalle proprie case, mentre il governo certificava 67.321 sfollati tra l’inizio del 2024 e i primi giorni di marzo. 

 

L’Alto commissariato Onu per i rifugiati porta la soglia a centomila. Complessivamente, da quando sono iniziati gli scontri nel 2017, gli sfollati nel Mozambico settentrionale sono 582.764, secondo i dati delle Nazioni Unite, che hanno denunciato anche la distruzione di interi villaggi, infrastrutture, chiese e il saccheggio di depositi alimentari (come accaduto pochi giorni fa a Macomia). Sconosciuto il numero delle vittime, anche se testimoni locali affermano che dopo le battaglie di marzo si potevano vedere cadaveri in strada, in maggioranza di soldati locali. 

Si sta replicando, in piccolo, quanto già visto in Afghanistan con l’abbandono delle truppe occidentali e il ritorno dei talebani e con analoghi ritiri di militari stranieri nel Sahel: non è infatti casuale che l’intensificarsi degli attacchi jihadisti sia coinciso con il progressivo ritiro dei contingenti stranieri della missione militare Samim che presidiava la provincia di Cabo Delgado. Il governo del Mozambico prevede di sostituirli con truppe ruandesi e milizie locali. E’ la Chiesa, attraverso la rete capillare di diocesi e di missioni, a fornire il quadro della situazione. Aiuto alla Chiesa che soffre racconta di testimonianze su pesanti scontri a fuoco e fuga di centinaia di persone dai centri abitati. Il vescovo di Tete, mons. Diamantino Antunes, ha condannato “la distruzione di dozzine di villaggi e di infrastrutture pubbliche e sociali, comprese le chiese”. Con tanto di appello affinché si aprano “i cuori alle grida di questi nostri fratelli, pregando per loro e sostenendo chi li sta aiutando”. Il vescovo di Pemba, capoluogo della provincia di Cabo Delgado, mons. António Juliasse Ferreira Sandramo, parlando dei jihadisti ha detto che “la retorica di questi gruppi è in linea con quella dello Stato islamico, al quale dicono di essere affiliati”. A ingrossare le loro file sono “la povertà e l’esclusione sociale”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.