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Via la croce, ci sono le Olimpiadi

La Chiesa francese è da tempo inebetita, schiacchiata sotto il peso del Rapporto Sauvé sugli abusi negli ultimi decenni. Dopo i mea culpa pubblici dei presuli, le conferenze stampa penitenziali e la disponibilità a vendere mobili e immobili per far fronte ai risarcimenti, il low profile è considerato la scelta migliore per andare avanti

Matteo Matzuzzi

Presentato il manifesto dei Giochi di Parigi e dalla cupola degli Invalides è stata rimossa la croce. La politica protesta, mentre la Chiesa francese è ormai ridotta al silenzio e all’irrilevanza

Dal manifesto ufficiale delle Olimpiadi di Parigi 2024 è scomparsa la croce, quella che svetta sulla cupola degli Invalides. L’artista Ugo Gattoni ha infilato di tutto nell’opera dai rimandi alla gloriosa Belle époque. C’è la Torre Eiffel, lo Stade de France, il Trocadero, l’Arco di trionfo e poi gli sport vecchi e nuovi, dall’arrampicata alla break dance. Tutto tranne due cose: la croce sugli Invalides (rimossa) e la bandiera francese. Immediata e scontata la polemica politica per i “simboli” mancanti: “Una vergogna per il nostro paese”, twitta un deputato. Un altro denuncia la “volontà di cancellare ogni segno di cristianità”, un eurodeputato zemmouriano attacca i “traditori colpevoli della rinnegazione della Francia”. Altri, fronte Rassemblement national, promettono guerra senza esclusione di colpi al wokismo. Tempi duri per i cattolici nell’ex “figlia prediletta della Chiesa”: in poco più di ventiquattro ore hanno sentito la standing ovation parlamentare alla costituzionalizzazione del diritto d’aborto, la festa con tanto di scritte esultanti proiettate sulla Torre Eiffel, la teoria di illuminati politici locali d’ogni schieramento a plaudire commossi e orgogliosi che la Francia sia il primo paese al mondo ad aver inserito in Costituzione l’aborto. E poi, dal manifesto delle attese Olimpiadi, via la croce. Non sia mai che qualcuno possa sentirsi disturbato.

 

Le proteste ci sono e sono forti, ma forse è più per la mancanza del drapeau tricolore, segno e simbolo dell’essere francesi e diversi da tutti gli altri. Sta di fatto che nella patria della laïcité più esasperata, quella che ogni anno, puntualmente, discute se sia lecito o no allestire presepi in spazi pubblici e s’arrovella sul diritto di una statua della Madonna di sostare in qualche aiuola comunale, s’è fatto un passo in più nel programma della cancel culture. Anni fa fece scandalo per qualche giorno la decisione del Real Madrid di rimuovere dal proprio logo in versione araba la croce sormontante la corona reale. Qualche fondo saudita o qatarino avrebbe potuto avanzare dubbi o perplessità. Stavolta la Francia ha deciso di castrarsi in casa. Le Olimpiadi sono di tutti – sugli israeliani magari si può discutere, c’è chi vorrebbe escluderli per i noti motivi – e quindi il simbolo religioso per eccellenza, quello che dominava il sacro atto dell’unzione dei re, va tolto. Il risultato, naturalmente, è sempre lo stesso: tutti guardano quel che manca e da lì si scatena la polemica. Non che sia una novità assoluta: anni fa,  a Tolosa si discusse di togliere la croce dal gonfalone comunale perché discriminatorio nei confronti di chi non si riconosceva in quello stendardo medievale.

 

La Chiesa francese tace, limitandosi a qualche rimostranza indolore. Digiuno e preghiera per combattere la norma abortista, le associazioni laiche – assai più combattive dei vescovi, salvo rarissime eccezioni – ricordano che la Francia è l’unico paese europeo dove gli aborti crescono di numero e promettono barricate. Anche la protesta del Vaticano è stata soft, limitata a qualche parola di mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita. In patria, sospiri e tanta rassegnazione. La Chiesa francese è da tempo inebetita, schiacchiata sotto il peso del Rapporto Sauvé sugli abusi negli ultimi decenni. Dopo i mea culpa pubblici dei presuli, le conferenze stampa penitenziali e la disponibilità a vendere mobili e immobili per far fronte ai risarcimenti, il low profile è considerato la scelta migliore per andare avanti. I vescovi sono sulla difensiva, non è tempo di guerre culturali e colui che più di altri teneva accesa la luce sul campo delle questioni bioetiche, l’arcivescovo di Parigi mons. Michel Aupetit, è stato rimosso, sollevato sull’altare delle chiacchiere (come da definizione papale). I giornali scrissero che aveva una relazione con una segretaria, poi con una teologa belga. Poi che all’una o all’altra faceva massaggi. Non era vero niente, come accertato dalla magistratura. Nel frattempo, aveva già lasciato la diocesi. E’ un paese dove i vescovi saltano perché sospettati d’aver coperto preti abusatori o perché pur assolti dopo anni di gogna non ce la fanno più (esempio perfetto, il cardinale Philippe Barbarin, a Lione, che dopo essersi difeso e aver vinto la battaglia, sfinito si è dedicato a una vita monacale). Ed è anche un paese dalle tante contraddizioni, con schermaglie anche interne al cattolicesimo: se il nord è attirato dalle sirene del vicino Belgio e della Germania, con i loro sinodi riformatori e le richieste d’aggiornamento secondo quel che richiede lo spirito del tempo, il sud è la culla di un conservatorismo tradizionalista dove spesso non si distingue chi è fedele al Papa da chi si rifà a Lefebvre. Il paradosso, che da tempo allarma anche Roma, è che mentre al nord le chiese chiudono e sono sempre più vuote, al sud i numeri sono in controtendenza. C’è chi sorride e c’è chi si allarma: un cattolicesimo “di destra” pronto alla guerra con la croce in mano è l’opposto dell’afflato verso le periferie e della Chiesa modello ospedale da campo. La battaglia sull’aborto costituzionale e le pruderie artistiche sulle croci rimosse non faranno altro che rinfocolare tali tensioni nel cattolicesimo francese, o in quel che ne resta.

 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.