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La lenta agonia della Chiesa francese

Scandali e vescovi che se ne vanno. Il cattolicesimo francese tra crisi del mito progressista e crescita delle realtà identitarie

Matteo Matzuzzi

In un anno e mezzo si sono dimessi il cardinale di Lione, Philippe Barbarin, e l'arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit. La secolarizzazione incalza, la divisione tra i progressisti e i tradizionalisti è sempre più profonda. E i numeri, quelli che contano, sono sempre più drammatici

“Io ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del Coro, a destra, destra, dalla parte della Sacrestia. In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio” (Paul Claudel)

  

Parlare di apocalisse è fortemente esagerato. Nel 1871, per ordine della Comune parigina, l’arcivescovo Georges Darboy fu fucilato senza troppe discussioni. E prima ancora, la ghigliottina rivoluzionaria si diede da fare nel mandare all’altro mondo preti e suore rei solo d’essere membri dell’odiato clero. Storia nota. Notre-Dame era sì in piedi con le sue belle vetrate, ma trasformata in magazzino. Insomma, la Chiesa francese ha visto ben di peggio dello stillicidio cui è sottoposta quotidianamente ai nostri tempi. In un anno e mezzo ha perso prima il primate delle Gallie e poi l’arcivescovo di Parigi. Philippe Barbarin, cardinale di Santa Romana Chiesa, sfinito da anni di battaglie giudiziarie e gogna mediatica perché accusato d’aver taciuto davanti agli abusi commessi da un sacerdote della sua diocesi, ha preferito andarsene da Lione: assolto da ogni accusa, ha rimesso comunque il mandato nelle mani del Papa. La sua Chiesa era troppo divisa, tra sostenitori del vescovo e suoi oppositori. Troppo grave la ferita per poterla suturare.

   

Michel Aupetit, arcivescovo della capitale da soli quattro anni, ha seguito la stessa via: qui gli abusi non c’entrano, ma le inchieste giornalistiche (e quelle vaticane) hanno fatto sì che le sue dimissioni fossero accettate con tempistiche record: una settimana. Il Point aveva raccontato di una presunta liaison con una signora risalente al 2012 (smentita dal diretto interessato), altri avevano rimarcato la brutalità autocratica con cui Aupetit gestiva la diocesi: assalto alle realtà più progressiste, attacco ai Bernardins giudicati “non abbastanza cattolici”, sfiducia manifesta e ricambiata dai due vicari generali che se ne sono andati l’uno dopo l’altro. Il Papa ha confidato ai giornalisti che il vescovo è stato condannato “dal chiacchiericcio dell’opinione pubblica”, che secondo l’accusa si è macchiato di peccato contro il sesto comandamento (“piccole carezze e massaggi”), ma che tanto è bastato a rimuoverlo. “Quando il chiacchiericcio cresce, cresce, cresce e ti toglie la fama di una persona, no, non potrà governare perché ha perso la fama non per il suo peccato, che è peccato – come quello di Pietro, come il mio come il tuo – ma per il chiacchiericcio delle persone. Per questo ho accettato le dimissioni, non sull’altare della verità ma sull’altare dell’ipocrisia”.

 

La Francia un tempo era la prediletta, benché con Roma non sia mai stata una storia d’amore. Oggi è un gigante intorpidito, scosso dalla pubblicazione del rapporto Sauvé sugli abusi sessuali che sarebbero stati commessi negli ultimi settant’anni: più di trecentomila casi riconosciuti, migliaia di segnalazioni giunte online, un j’accuse che ha portato un’intera Conferenza episcopale a cospargersi il capo di cenere, chiedendo da Lourdes (dove s’era riunita) perdono e assicurando che avrebbe fatto di tutto per rimediare allo scandalo, per quanto possibile. Anche mettendo all’asta beni immobili per risarcire le vittime, previo necessario discernimento, s’intende, ché non tutti ne hanno diritto. Una Chiesa ferita e in ripiegamento, dove i suoi luoghi di culto da tempo sono il bersaglio di atti vandalici. “Ogni quindici giorni una chiesa francese brucia”, ha detto il presidente dell’Osservatorio del patrimonio religioso, Edouard De Lamaze. In un anno, mille atti anticristiani, tra furti di ostie e distruzione di statue o sfregio di portali. E davanti a un popolo fedele che si riduce progressivamente, i vescovi sono costretti a chiudere e vendere: 31 chiese sbarrate nel 2017, 32 nel 2018, 34 nel 2019. La rinuncia anticipata di mons. Aupetit ha dato paradossalmente la scossa a una realtà laica parigina che da due anni s’interessava al sacro quasi solo per accapigliarsi sul restauro di Notre-Dame, dibattendo animatamente sulla nuova guglia o sul carattere contemporaneo delle sue vetrate. Dibattiti rispettabili ma mondanissimi, che di certo non avrebbero favorito nuove conversioni come quella di Paul Claudel, che entrando da ateo nella cattedrale al vespro di Natale del 1886, ne uscì commosso cantando il Magnificat: “Come sono felici le persone che credono!. Ma era vero? Era proprio vero! Dio esiste, è qui. E’ qualcuno, un essere personale come me. Mi ama, mi chiama. Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l’emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell’Adeste, fideles”, avrebbe scritto raccontando quel prodigio. 

 

Un recente sondaggio ha rilevato che oltralpe la pandemia, con le chiese chiuse e il coprifuoco, ha avuto uno scarso effetto sulla pratica religiosa: sospiro di sollievo? No. Non ha avuto particolari conseguenze perché ormai più della metà dei francesi si dichiara atea. Il 51 per cento, secondo l’Ifop, ha risposto di non credere in Dio, numeri in crescita rispetto al 2011 (era il 44 per cento). Alla fine della Seconda guerra mondiale, i credenti erano il 66 per cento della popolazione. Il 91 per cento, oggi, ha detto che la pandemia non ha per nulla avvicinato alla pratica religiosa. E il rogo di Notre-Dame? Come se fosse andato a fuoco un supermagazzino sugli Champs-Élysées: 79 intervistati su cento hanno confessato che l’evento non ha risvegliato in loro alcun sentimento religioso o spirituale. Quel che è più significativo, però, è che di religione non si parla più in casa: lo fa il 38 per cento, quando una decina di anni fa era la prassi per il 58 per cento dei francesi. Restava – ed era un motivo di vanto – solo il numero dei battesimi “adulti”, proporzionalmente alto rispetto ad altri contesti occidentali. Ma qui la pandemia s’è fatta sentire, e tanti che erano intenzionati a ricevere il sacramento hanno diradato gli incontri, si sono allontanati e non si sono più visti. Il terreno è insomma fertile per un ripiegamento depressivo, favorendo l’inutile rimpianto per il tempo che fu quando i seminari erano pieni, la fede fervida e Jean-François Millet dipingeva il suo “Angelus”. 

 

Sarebbe però superficiale fermarsi alla prima impressione, quella dei dossier squassanti e dei vescovi che abbandonano più o meno volontariamente le cattedre. Un popolo, benché minoritario, c’è eccome. Lo si è visto mentre pregava inginocchiato davanti alle colonne di fumo nero che s’alzavano da Notre-Dame, lo si è ammirato sfilare a sostegno di temi bioetici mai come ora così poco à la page. “Il cattolicesimo francese conosce una situazione inedita: in più di centocinquant’anni di storia non è mai stato così minoritario. Nei prossimi venti o trent’anni gli adulti che vivranno in Francia non conosceranno più Gesù Cristo”, diceva qualche tempo fa al Foglio Pierre-Hervé Grosjean, sacerdote quarantenne, conosciutissimo in patria, presente sui social network. Eppure, constatata la realtà, diceva che “noi non saremo mai una minoranza come le altre, una minoranza tra le altre: non si cancellano in un colpo solo millecinquecento anni di storia cristiana”. La fede, spiegava, va comunicata. Bisogna stare sul pezzo, intervenire su tutto, a cominciare dai temi d’attualità: “Una minoranza che non comunica è condannata a morire. Quando si è minoranza, si è tentati di diluirsi o di rinchiudersi in se stessi. In un caso come nell’altro significa rinunciare a essere presenti. Si tratta di abbandono, diserzione”. I cattolici, oggi, devono giocoforza essere “senza complessi”: costretti a testimoniare, “a rendere conto della speranza che ci anima”. Certo, ci vuole creatività, “reinventare i modi per trasmettere il messaggio del cristianesimo”. E’ una Francia spaccata tra il nord sensibile alle influenze secolarizzanti del Belgio e dell’Olanda e il sud dove forte è la presenza più tradizionalista.

 

Pochi mesi fa, la Croix raccontava l’esperienza della Comunità di San Martino, con i suoi sacerdoti dichiaratamente conservatori che rappresentano l’unico gruppo in crescita, tant’è che – si stima – fra qualche lustro rappresenteranno tra il venti e il quaranta per cento di tutto il clero francese. Si definiscono integrali ma non integralisti, sono identitari, mettono insieme la tradizione benedettina con la grande spiritualità francese. Il motto del fondatore, don Jean-François Guerin, era chiarissimo: “Smettiamo di farci trascinare dalla nostra epoca. Trasciniamola noi”. La rivendicazione, insomma, di una presenza. Attiva e non meramente contemplativa. Più che altro, non rassegnata. Eppure, paradossalmente, queste comunità vitali sono guardate con sospetto dall’intellighenzia clericale che – nonostante sia sempre più asfittica – mal tollera questo cambiamento radicale. Perché di ciò si tratta, in Francia. Lo spiegava in un’intervista al Point Henri Tincq, per più di un ventennio responsabile dell’informazione religiosa al Monde e autore de La Grande Peur des catholiques de France“Noi – ha detto Tincq – venivamo da una matrice cattolica e andavamo verso gli altri. Oggi è in atto il processo inverso: giovani credenti provenienti da un mondo non cattolico vanno a cercare nella Chiesa dei modelli rassicuranti e visibili di identificazione, delle convinzioni, dei valori e un significato alla vita che non trovano altrove. Nella mia gioventù si passava dalla Chiesa al mondo. Oggi si viene da un mondo secolarizzato e si entra nella Chiesa”. Tincq, che questa realtà mostra di non apprezzare, fa un paragone con il passato, con quel che c’era e oggi non c’è più: “Appartengo a una generazione di cattolici cresciuti nell’età dell’oro dei famosi movimenti dell’Azione cattolica, che volevano testimoniare la loro fede nella società, senza un’eccessiva ricerca della visibilità e senza proselitismo; alla generazione delle grandi riforme del Concilio Vaticano II che aveva invitato i fedeli a uscire dal sistema di “cristianità” del passato, ad aprirsi al mondo moderno, e ad entrare in dialogo con le altre religioni un tempo ignorate”. Insomma, è il “cattolicesimo missionario, progressista ed ecumenico”, quello cui si riferisce Tincq. Il problema è che questo cattolicesimo da decenni ha mostrato tutti i suoi limiti. Più salottiero che missionario, più da convegni e congressi che da chiese. Un intimismo molto dotto che ha fruttificato poco, o quantomeno non quanto s’era sperato decenni fa. Evangelizzazione (non fare proselitismo) pressoché inesistente e incapacità di attrarre.

 

Chi critica il corso attuale della Chiesa francese, come la Conférence des Baptisés, individua nell’appiattimento sui temi bioetici la ragione principale del declino. Una Chiesa “clericale ed estetizzante” che non fa presa sul popolo e che è stata incapace di cogliere la sfida della modernità, arroccata in ridotte sicure mentre guarda l’inesorabile scorrere del tempo. Appoggiando la Manif pour tous, il movimento che contrastava in piazza la legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso promossa da François Hollande nel 2013 e che, sempre secondo i critici altro non ha fatto che dividere ulteriormente il Popolo di Dio, radicalizzando chi scendeva in piazza e allontanando i più dialoganti. Il punto, però, è che in un contesto di minoranza a crescere sono le comunità più identitarie e conservatrici, mentre mostrano segni evidenti di vecchiaia precoce quegli esperimenti sorti negli anni Sessanta cavalcando le mode più audaci e, sovente, le interpretazioni più spinte del post Concilio. A interrogarsi dovrebbe essere la Chiesa in generale, e non solo quella francese. Si tratta di comprendere, al di là degli schemi ideologici e delle pur legittime opinioni personali, se chi cresce fa parte di un insieme di cristiani radicalizzati, psicologicamente fragili e dediti al culto più che di Dio dei pizzi e dei merletti con cui rivestirsi durante le celebrazioni liturgiche (l’accusa, appunto, di volere una Chiesa dedita all’apparenza trionfalistica). O  se invece il problema è più profondo: forse a non attrarre più è la Chiesa percepita troppo in balìa dello spirito del tempo? Usare il Concilio come spartiacque è però sbagliato: sarebbe troppo facile spiegare il crollo con quanto accaduto negli anni Sessanta e Settanta: oltre alle inevitabili derive, quella fu un’epoca di autentico fermento e di dinamismo. La Francia, probabilmente, ha patito prima e più di altri la crescente secolarizzazione, avvertendo con grande anticipo rispetto ad altri contesti la fine della cristianità. Il cardinale Emmanuel Suhard, uomo nato nel 1874, quando la Francia si diceva cattolicissima, nel 1947 scriveva Essor ou déclin de l’Église. Chiese a Henri Godin e Yvan Daniel di preparare un rapporto che come titolo usava una domanda: “Francia, paese di missione?”. E come Suhard gli stessi interrogativi si ponevano i vescovi dei paesi vicini.

 

Notava l’anno scorso il cardinale Willem Eijk, arcivescovo di Utrecht, conversando con il Foglio: “Subito dopo la Seconda guerra mondiale, la vita della Chiesa in Olanda si è rivelata essere basata soprattutto su costumi sociali e poco su un rapporto personale tra le persone e Cristo. Questo problema era stato avvertito già prima: anche negli anni Venti e Trenta, alcuni preti erano preoccupati dalla limitata profondità che aveva la vita religiosa in molti loro parrocchiani. E a causa di questa limitata profondità della loro relazione con Cristo, i cattolici olandesi si sono trovati senza difese contro l’individualismo che iniziava a emergere negli anni Sessanta. Qui siamo andati avanti con le suppliche per avere preti sposati e tutti i tipi di esperimenti liturgici. La gente voleva adattare Dio e la Chiesa ai propri desideri e alle proprie idee. Tutto questo era destinato a fallire”. Da dove arriva questo individualismo? “La causa principale è stata l’aumento della prosperità. Quel che è rimasto è un individuo con una vaga consapevolezza che c’è ‘qualcosa di più alto’, ma non osa chiamarlo Dio”.
 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.